Cacciari: a Verona s’è riunito un mondo che non c’è più
“In fondo alla direzione che indicano, c’è la rovina:
“I tradizionalisti del Congresso di Verona sono dei reazionari pericolosissimi. Non intendono affrontare il problema della dissoluzione della famiglia, che è reale, comprendendo quali sono le radici della questione e individuando una via d’uscita positiva.
Pretendono di riportare l’intera società nel passato. Un’operazione impossibile. E molto rischiosa.
Perché quando rifiuti di progettare il futuro, cercando riparo in un tempo che non c’è più, sfuggi in realtà al presente. E il risultato è che rimani fermo e immobile, creando disastri”.
Nel lessico di Massimo Cacciari – uno dei maggiori filosofi italiani –, la parola tradizione ha un significato del tutto diverso da quello che gli hanno dato al raduno mondiale delle famiglie: “Per loro, la tradizione è un’autostrada identitaria.
Riguarda il proprio paesello, certi costumi, un’idea ristretta della nazione.
La tradizione, invece, è una corrente molteplice, attraversata da un numero infinito di affluenti.
È un continuo tradursi e rinnovarsi. La tradizione identitaria che hanno in mente i sovranisti è quanto di più estraneo si possa immaginare dal concetto di tradizione degli umanisti”.
Dissolvendo l’idea che sia stato un momento di armonia, bellezza e concordia, Cacciari ha da poco scritto un saggio fenomenale sull’umanesimo.
Si chiama La mente inquieta (Einaudi) e racconta lo sforzo che hanno compiuto gli uomini di quel tempo per dare forma ai conflitti della propria epoca, creando una lingua che li sapesse nominare, attraversando fino in fondo la tempesta con la poesia, raffigurandoli con la grande pittura:
“Gli umanisti vivono un periodo analogo al nostro. Un periodo di grandi crisi, enormi dubbi, estrema incertezza, se non di angoscia. Un ordine era esploso e un altro non si era ancora formato.
La differenza è che noi non abbiamo ancora una rappresentazione realistica, sobria, disincantata del momento che viviamo. Non abbiamo coscienza della tragicità contemporanea e, ancor di più, ci manca un’ipotesi su come uscirne.
Siamo privi di qualsiasi progetto. Nuotiamo nel fiume della vita improvvisando e, per salvarci, spingiamo sott’acqua il nostro vicino”.
Sta pensando ai migranti che muoiono in mare?
La parola uomo viene da homo, cioè colui che seppellisce i morti, dal latino humus-humare. Lasciare che le persone si disperdano in mare è la cosa più lontana che ci sia dall’umanesimo.
E dall’uomo?
La natura umana, insegnava Agostino, non è solo vulnerabile: è anche vulnerante. L’uomo può nuocere all’altro, può offenderlo e calpestarlo, non è affatto un essere rassicurante.
Quando è straniero, lo è ancor di meno?
La xenofobia fa parte della storia europea. Il Novecento ne è pieno. E oggi è riaffiorata. Il problema è contraddirla. Trovare le parole per contrastarla. Altrimenti, ci ritroveremo circondati da macerie.
Dove possiamo trovarle queste parole?
Nei fondamenti della nostra tradizione. La xenofilia, ossia l’amore per lo straniero, è centrale nella cultura greca e latina. Xenofilia vuol dire avere cura, se non addirittura provare amore per chi non parla la mia lingua, che è propriamente lo xenos, lo straniero. Cosa insegnano, in fondo, gli umanisti, se non a conoscere e tradurre un’altra lingua? Dimenticare questi elementi fondamentali del nostro passato, significa esporsi, di nuovo, al rischio della auto-distruzione.
Noi europei non parliamo già troppe lingue diverse?
Ma è la nostra forza, è la grande forza dell’Europa.
Non è anche un ostacolo alla reale unità europea?
Nient’affatto. Se l’Europa ritiene che possa costituirsi parlando una lingua sola, smetterà immediatamente di esistere. Non sarà una lingua comune a creare l’Europa: sarà la traduzione delle nostre lingue, il loro scambio, il meticciato, che le renderà ancora più potenti. L’Europa è costituita dalla differenza degli idiomi. È lo studio di queste differenze che realizza l’Europa. Non la loro dissoluzione.
Però, creando l’italiano volgare, Dante creò anche la possibilità dell’Italia, o no?
È ovvio che le lingue diventano ancora più lingue quando sono dette dal poeta. Non c’è italiano senza Dante. Non c’è inglese senza Shakespeare. Non c’è tedesco senza Goethe. L’Europa non deve rinunciare a questo patrimonio. Deve custodirlo. La grande lezione degli umanisti è l’amore per il testo originale e per la sua traduzione. La filosofia dell’umanesimo non è nient’altro che una grande filosofia della traduzione.
Eppure, ha preso piede un’idea molto diversa della nostra identità.
È una malattia del nostro tempo. Un’organismo sano affronta le sfide andandogli incontro. Non barricandosi in casa. Certo, è rischioso: ogni avventura, può finire nel naufragio. Ma l’umanesimo insegna a non rimanere chiusi nel porto, anche se si ha paura del mare. Il sovranismo, invece, insegna il contrario.
Lei dipinge?
No, non dipingo.
Perché i suoi libri sono corredati da così tanti quadri?
Perché il pensiero non è solo discorsivo. Si pensa per immagini. Si pensa con la poesia, con la musica, con l’architettura, con la letteratura. Capire il pensiero di un’epoca significa immergersi in tutte queste varie dimensioni. Ognuna delle quali, declina lo stesso problema in una forma diversa. Nell’umanesimo, la pittura è riuscita a raggiungere un livello di profondità e completezza superiore rispetto a tutti gli altri saperi. I più grandi pensatori dell’umanesimo non sono i filosofi: sono i pittori.
Ancora oggi è così?
Dipende dai pittori, e dipende dai loro lavori. Quel che è certo, è che noi uomini occidentali siamo condannati a ricorrere alle immagini per dare forma alla realtà. Siamo degli animali simbolici. Sebbene, la proliferazione delle immagini che c’è nella nostra società, a volte, lambisca l’iconoclastia. Produrre troppe immagini, infatti, può portare a non avere reale attenzione per nessuna.
Lei, nei suoi libri, ricorre spesso al motivo tragico.
Sì, abbastanza di frequente.
Noi italiani non siamo più affini alla commedia?
E Leopardi, dove lo mette? Non vi è in lui un alto senso del tragico? E Alberti? E Machiavelli?
E Totò, e Alberto Sordi?
Ma le maschere di Alberto Sordi e di Totò, a volte, sono tragicissime. Quando la commedia italiana è spietata, come avviene nei suoi migliori momenti, sconfina nella tragedia. Al fondo, tutte le grandi maschere italiane hanno una dimensione tragica.
Lei sa che c’è chi le dà del buonista?
Che vuole che le dica. Ci sono un sacco di cretini in giro.”
intervista di Nicola Mirenzi per Huffington Post