2001 – ODISSEA NELL’OSPIZIO
Dice: «Ma quando passa l’astronave?»
«Sì, hai voglia ad aspettare… Qua non passa neanche l’autobus!»
Siamo tutti diventati vecchi e, variamente, in via di rincoglionimento (parlo della mia “cerchia”, ovvio) ma di viaggiare nello spazio, per “le umane genti”, non se ne parla proprio. Malgrado la convinzione che avevamo da giovani sulle “magnifiche sorti e progressive” che il futuro ci avrebbe riservato, quando per dire: «Non accadrà mai», dicevamo: «Sì, nel duemila!»
E invece non solo il duemila è arrivato ma i nati in quell’anno fatidico sono ormai maggiorenni. E ancora niente astronavi per tutti e nemmeno automobili volanti, almeno finché non ti crolla un ponte sotto le ruote ma in tal caso il volo è davvero troppo breve e l’atterraggio… beh, lasciamo stare.
«Non c’è più il futuro di una volta», diceva qualcuno (forse il geniale Altan) ma era veramente splendido quel futuro che non è mai arrivato, piaceva a tutti e a me – “patito” di fantascienza – in modo particolare.
Di certo, a quel culto neo-neo-futurista, avevano dato un contributo fondamentale Stanley Kubrik (il regista) e Arthur C. Clarke (l’autore) con il loro “2001 – Odissea nello Spazio”, film del 1968 (altro anno fatidico).
Si racconta che, quando a Roma ci fu la prima di quel film, al Supercinema (che non esiste più, ora c’è il Teatro Nazionale) si presentò un buffo ometto armato di esposimetro e metrella (il metro avvolgibile usato dagli assistenti operatori per “fare i fuochi”).
Era Stanley Kubrik che si mise, buono buono, a misurare la luminanza dello schermo – nei cinema allora si fumava e gli schermi erano sempre grigetto-marroncino! – e l’allineamento e il fuoco dei proiettori.
Naturalmente non andava bene niente ma lui, Stanley, aveva in contratto che le sale delle prime nelle capitali del mondo dovessero ottenere il suo nullaosta. Si fecero dei lavori riparatori. Grandissimo!
Qualche anno dopo aver visto il film, andai a New York, per la prima volta, con un volo della Pan Am, la grande compagnia aerea il cui marchio appare nel film come product placement nella prima astronave: ancora un futuro che non arriverà perché la Pan Am fallì e chiuse bottega ben dieci anni prima del 2001.
Presi una stanza al mitico Chelsea Hotel, che costava più dello Sheraton e non dava la colazione; erano compresi, invece, i bacherozzi a frotte e la puzza di muffa, piscio e disinfettante. Ero lì non perché ci avesse vissuto Dylan Thomas, non perché Sid Vicious ci avesse ammazzato la fidanzata, né perché i corridoi fossero arredati con polverose opere di Andy Wharol, né per Bob Dylan e per Jimi Hendrix: ero lì perché lì Clarke aveva scritto “2001 – Odissea nello Spazio” anche se, date le circostanze, non mi trattenni.
Ora, è accaduto che lo stimato scrittore Raffaele Abbate, del quale sono affezionato lettore nonché – immeritevolmente – coinquilino su questo blog di Luciano Odorisio, ha pubblicato un articolo (“La sporca dozzina ovvero i film da buttare”) sulle dodici peggiori opere cinematografiche di sempre.
Articolo che sarebbe, come di consueto, gustosissimo (e del quale sottoscrivo entusiasta gli undici dodicesimi) se non avesse inserito – ma che dico inserito? – se non avesse, addirittura, aperto la lista con il mio amato “2001” e se non chiosasse:
“Film inclassificabile. È un film folle, intollerabile, senza capo né coda. Con ogni probabilità si tratta del tentativo più ambizioso mai realizzato di far recitare le scimmie meglio degli esseri umani. Sembra che il mio mito Kubrik sia andato in vacanza.”
Ma, ahimè, ha chiosato! Ha osato chiosare. E chiosare così! E mo’ che faccio? mi chiedo. Levo gli scudi, spezzo una lancia, lancio il guanto e lo sfido a duello e di spada perisco… o gli buco tutte e quattro le gomme? Ma no, non si può, ‘che poi magari Odorisio s’incazza…
Non ho mai girato un film ma vorrei averlo fatto – e sufficientemente male – solo per poterlo offrire a Raffaele Abbate da inserire nella sua lista e riscattare così “2001”!
Non mi resta, dunque, che la supplica: per pietà, ci ripensi, stimato Maestro (tie’!), stemperi la Sua intransigenza, moderi la Sua furia iconoclasta, riveda la Sua posizione così severa… e riveda pure il film già che c’è, che magari la prima volta – sia detto rispettosamente – aveva mangiato pesante e s’era abbioccato.
Film inclassificabile, Lei dice. E vabbe’, ci può anche stare, mica è un difetto. Esce dagli schemi consueti, certo. In fondo, a chi piace essere classificato?
È un film folle, intollerabile, senza capo né coda. Ad elogiare la follia ci ha già pensato Erasmo e non ci provo nemmeno; per la tolleranza c’è Voltaire: idem come sopra; il capo e la coda – ma vado a memoria – non mi sembra proprio che manchino ma proviamo ad andare con ordine.
Si comincia con gli scimmioni antropomorfi che se le suonano di santa ragione senza venirne a capo finché il più scafato dei buoni (i cattivi sono quelli cannibali, ça va sans dire) raccoglie un femore e, lì per lì, si inventa l’arma bianca. Il monolite è la metafora della ragione che l’ha illuminato – così a me era piaciuto pensare – o è la traccia di un’intelligenza extraterrestre superiore che gli ha dato una dritta – come sembra intendessero gli autori – oppure – per chi ci crede – è il padreterno. Così siamo contenti tutti: atei mangiapreti, ufologi visionari e bigotti baciapile. Che vogliamo di più?
Poi, con l’osso lanciato in aria che diventa un’astronave, ha inizio la parte centrale del film che è anche la più corposa.
In un cratere sulla luna è stato trovato un altro monolite che emette un misterioso segnale radio diretto verso Giove. Per Giove (!) parte quindi una missione di cinque uomini, tre dei quali addormentati.
A bordo, ad occuparsi di tutto, c’è il supercomputer Hal 9000 che la sa lunga e, all’insaputa degli astronauti, è programmato per scopi militari segreti il che condurrà ad uno scontro mortale tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. Al di là delle varie vicissitudini della storia, è davvero rimarchevole l’anticipazione di un tema così attuale ben cinquant’anni fa!
Si giunge così alla terza parte della narrazione, quel discusso epilogo che – lo ammetto – è la parte più criptica e forse anche, a essere giusti, la meno risolta. L’uomo, nel contatto con “ragione-alieno-dio” ha perso o, per meglio dire, è andato oltre la sua corporeità antropica assurgendo ad uno stato di coscienza-conoscenza superiore ed omnicomprensivo: l’uomo, in sostanza, diviene esso stesso dio. O quasi.
Certo, raccontata così sembra un po’ come il riassunto de “I Promessi Sposi” che faceva Corrado Guzzanti: “Due se vonno sposa’, c’è ‘no stronzo che nun vole che poi more e quelli se sposano”.
Il film è invece pieno zeppo di suggestioni visive incredibili (anche gli scimmioni, interpretati da uomini, non sono mica male!), di suspense (nei comportamenti del diabolico computer dalla voce melliflua e inquietante), di accostamenti perfetti tra le immagini e il commento musicale, di soluzioni magistrali nella fotografia, nella scenografia e nel montaggio. Insomma, di tutti gli elementi che devono concorrere alla determinazione di un capolavoro.
Don Rafe’, mannaggia, facciamo così: se me lo togliete dalla lista nera vi offro una cena.
Roberto Savoca
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[…] Ovvero raccolgo il guanto di sfida lanciato da Roberto Savoca […]