Green Book ha vinto il premio Oscar.
Riconoscimento meritatissimo per un film che propone in modo semplice e disordinato un concetto essenziale: la conoscenza scioglie il pregiudizio.
In questo caso, quello del razzismo tra il rozzo buttafuori italo-americano Tony Vallelonga e il raffinato pianista di colore Don Shirley, per il quale accetta di fare l’autista in una tournée negli Stati del Sud, dove la segregazione – nei primi anni Sessanta – è ancora pesante.
La trama si rifà ad una storia vera e non s’impiglia mai nella retorica della denuncia esplicita, grazie a dialoghi diretti e una realtà abrasiva che sono entrambi efficaci, perché scritti dal figlio di Vallelonga.
C’è un altro protagonista nel film, il viaggio: una situazione anomala, che sospende la quotidianità e dilata il tempo.
Quello che i due uomini hanno on the road per parlarsi, studiarsi e confidarsi, anche per quello che accade nelle soste. Dove scoprono che per andare avanti insieme, devono darsi clemenza e aiuto.
Green Book ha meritato l’Oscar perché parla di antirazzismo non con eroi, ma con il cambiamento di un rozzo italo-americano che si abitua al suo passeggero.
Non perché riveda i suoi valori, ma perché succede così.
Un messaggio che – con la forza del suo minimalismo – smonta più di un proclama le teorie xenofobe dilaganti.