«Un grande fuoco…»
E mi fissava con lo sguardo febbricitante, il fraticello con tonaca marrone scuro, sandali d’ordinanza, mascella volitiva con barbetta squadrata.
Un incrocio fra un taglialegna americano, un Timberjack, di quelli con camiciotti a quadrotti, stivaloni e pantalonacci di fustagno, che c’hanno fatto pure un film…
e i San Franceschi di legno che si vendono ad Assisi sulle bancarelle, allineati come soldatini del Signore a 50 euro al pezzo.
Forse il taglio perfetto della barbetta rada, un taglio fatto da uno scultore nel legno e poi dipinto.
Era davanti a me, sorrisino all’angolo della bocca con occhi di brace.
Il sorrisino di chi ha ragione, di chi è dalla parte del giusto, del grande colonizzatore, di quelli partiti per terre lontane divorati dalla passione di portare la parola di Dio ai primitivi, sconvolgendo vite e culture millenarie co’ sta storia delle croci, miracoli, moltiplicazione pani e pesci, acqua che diventa vino…
«Un grande fuoco…» disse ancora, fissandomi cattivo.
«Ho capito…» accennai per calmarlo, arginarlo, cercando di distogliere lo sguardo.
Accanto a me una collaboratrice armeggiava con i libri sul tavolo ordinandoli a raggiera.
Ogni tanto sollevava lo sguardo, poi lo riabbassava non senza avermi lanciato un’occhiata preoccupata come a dire:
“Mo so’ cazzi tuoi!”
TimberJack era proteso su di me, incombeva, io seduto al tavolo, indifeso.
Silenzio.
Da dentro il teatro provenivano flebili le voci degli attori che si stavano alternando sul palcoscenico nell’omaggio a Modesto Della Porta, sarto e poeta, indimenticabile.
Ero nel paese di Modesto Della Porta e delle “sise delle monache”.
E proprio in quel momento stava recitando un ex attore che avevo conosciuto molti anni prima.
Naso schiacciato come il pugile suonato del “Farò un grande ritorno”, anche lui aria da colonizzatore, anche lui dalla parte del giusto.
Anni prima, per quei casi fortuiti della vita, ebbi a che fare con lui per un lavoro documentaristico e una serata, un dopo cena, quando un bicchiere di vino di troppo ti fa sentire l’altro come un vecchio amico di cui ci si può fidare senza censure né filtri, mi rivelò che sua madre era vergine.
«Azz!», mi scappò detto.
Mi pregò di non dirlo a nessuno, lo sapevano in pochi.
«Azz!», mi scappò di nuovo, poi ne dedussi in cuor mio che se la madre era vergine, lui allora era…
E cercai di reagire scherzando, al solito mio.
Gli chiesi se per caso stessi parlando col figlio di Dio in persona, lui si offese, mise il muso, guardò lontano e non mi parlò più.
Gesù si era chiuso in un silenzio tombale e la serata si chiuse lì e finì la magia.
Ecco, ora da dentro il teatro arrivava la voce del Nazareno 2.0 che stava recitando “La cocce di San Dunate”, il momento del santo che in processione doveva passare dalla porta principale e non ci “capava”:
«Ma quande si truvà sott’a la porte, i’ ne’ le sacce quille che penzave, nisciune del le quattre s’avè ‘ccorte ca San Dunate allòche ‘n ci passave…»
«Mi devi cretere!» mi richiamò alla realtà il fraticello con la barbetta intagliata nel legno, che aveva occhi solo per me.
«I’ scopavo come nu riccio, mi devi cretere…sigarette, donne, facevo tardi la notte, bevev’ e m’ strafogavo di tutt’ quell’ che m’ veniva mment’…sputavo p’ terr’ e vrastemmavo…hai capito, fratello, vrastemmavo…»
«Bestemmiavi…» tradussi in italiano come un automa, impaurito e affascinato al tempo stesso da questo fraticello che in una serata afosa, dopo una scrollatina di pioggia, era apaprso nella hall del cinema teatro dove stavo allestendo un banchetto con i miei libri.
«Porco qua, porco là…mi devi cretere, fratello…vrastemmavo come nu turc’…»
Mi venne da ridere per il bisticcio e provai a suggerirgli quache distinguo.
«Quell’ è fumare come nu turc…magari vrastemmavi come a nu diavul’…no?»
«Ucuale, devi cretermi…avevo 24 anni, ero una barca senza più timone, una bicicletta senza freni p’ na discesa, un fuscello di paglia in un turbinio di vento…»
Rimasi senza parole, avrei voluto scherzare per sdrammatizzare, ma i suoi occhi puntati nei miei mi suggerivano cautela.
Anche la collaboratrice, pietosa, mi lanciò uno sguardo a lasciar perdere, a non dar peso.
Intanto da dentro il teatro si sentiva il novello Gesù di Nazareth alle prese con un altro passaggio della poesia di Della Porta, quando qualcuno nella poesia aveva suggerito di mozzare la testa al santo per farlo passare dalla porta:
«Ma come! San Donate senza cocce?
Se proprie quella và pe’ ‘nnumenate!?”
“Gnarnò, ne èsce la prugessïune”,
fece zì’ Pasquarelle lu Mammocce,
“picché s’à fatte queste San Donate,
vol dire ca ‘n ci te le ‘ntenzïune!»
Ma il taglialegna vestito da frate non mi mollava:
«E all’improvviso, una bella matina mi sono svegliato con un grande fuoco dentro…» continuò invasato.
«Avevi esagerato col bere…bruciori allo stomaco…» cercando di riportare la conversazione su un piano piacevole e scherzoso.
Ma lui non scherzava più, sempre col sorriso di chi sa e ti sta per dire verità divine, inconfutabili.
«Ma qua bere…quell’ ho sentito un grande fuoco proprio nello stomaco…che mi faceva male…e cos’era?»
Silenzio, sguardo febbricitante, da lontano la voce del figlio della madre vergine.
«E cos’era?» gli riproposi la domanda nella speranza che finisse quel tormento.
San Francesco davanti a me, inquisitore, dentro il teatro il Nazareno, ero in trappola.
«La manganza di Tio nostro Signore, patrone del cielo e della terra…»
Silenzio. Forse era finita.
Sorrisi facendo spallucce come a dire “Capita…”, non sapevo come uscirne.
Guardai la gentile collaboratrice che mi stava aiutando con i libri, ci sorridemmo, anche lei non sapeva come uscirne evidentemente, e maledii il momento che gli rivolsi la parola scherzando sulla sua apparizione.
«E anche tu devi sentire il sacro fuoco!» mi sparò a bruciapelo, cocludendo.
«Domattina dirò na messa proprio pe’ te e sentirai come un fuoco dentro…»
«No, grazie, lascia stare…io per ora sto bene così…»
«No, devi sentire il grande fuoco, poi starai meglio…»
«Ma io già sto bene così…lasciami stare…»
«E io la dico lo stesso…non si sfugge a Dio nostro Signore, patrone del cielo e della terra…»
«Guardi…» passai al “Lei” sperando di ristabilire una certa distanza e di spezzare quell’assedio.
«E io la tico, che mi vuoi fare?», mi sfidò TimberJack con la tonaca da frate francescano.
«Anzi, ne tico tue!»
«No! Tu non dici un cazzo…oh, scusami…», mi alzai in piedi, furente.
Non se l’aspettava.
«Fradello…»
«Fradello lu cazz’…ti sto pregando di non dire nulla…mi porta sfiga!»
«No, quest’ non creto…»
«E io ti dico di sì, non puoi farmi questa violenza, ecco, ho le palpitazioni…oddio mi sento male…»
E a lui non gliene fregava un cazzo e sorrise:
«E io ne tico tre…tre messe per te!»
«E io ti meno!», mi sfuggì incazzato nero.
«Ti strappo la barbetta pelo su pelo…promettimi che non lo fai che mi sento male…»
Intervenne la collaboratrice mentre da dentro Gesù Cristo continuava a declamare La Cocce di Sante Dunate, il passaggio che i portatori della statua decidono di cambiare santo, più piccolo che riesce ad uscire dalla porta della chiesa:
“Va bbone?” “E come!” “Ma chi sa la gente
che dice mo che vede n’àtru sante…”
“Lu sante? Gisuvè, chï ci te’ ‘mmente?
A la prugessïune, chï va ‘nnante
camine e nen s’accorge di nïente;
quille di ‘rrete pù’ vedè sultante
la mitre e lu colore de lu mante…
Perciò, curagge e… pinz’a sta’ cuntente!”
“E allore, zì’ Pasquale, quand’è queste,
apre la ‘nnicchie di San Giuvacchine.”
“Ne’ sta’ a la ‘nnicchie, sta’ a la sacrastìje,
pecché l’âtr’anne, dope de la feste,
siccome s’avè’ rutte la vetrine,
l’arichiudèmme alloche…” “E vall’ a pije!”
La mia collaboratrice gli suggerì una serie di peccatori per cui dire messa, ci seppe fare e lo riportò alla ragione.
«Va bene, non dico niente…prometto…» e sorrideva come a dire “Tanto la dico lo stesso”.
«No, me lo giuri su nostro signore…»
Attimi di suspence…sorrise ancora il taglialegna e finalmente lo giurò.
E sparì dentro la sala ad ascoltare l’ultimo pezzo della cocce di sante Dunate, recitata dal figlio di Dio col naso del pugile suonato, San Donato viene sostituito da San Gioacchino:
“Sta pronte?” “Pronte…” “Embè, che ci’aspettate?
“È tarde!” “Chiame ‘Ntonie o che me porte
nu scarapelle.” “Sùbbete!” “Schiuvète
San Donate. Quatrè, stetev’accòrte
‘nche ‘stu San Giuvacchine… Acchiapp’arrète,
piane! N’avess’avè’ la stessa sorte…
Mettète ‘ncolle… Pòpele, sfilète!”,
strillà zì’ Gisuvè, “Larg’ a la porte…”
Tra bbumme, bbande e sone de campane,
cungréhe, ‘ntorce, conche e virginelle,
s’arimittì ‘n camine a mane a mane.
Nisciùne addummannà c’avè’ successe,
le prìiete archiappà’ lu riturnelle
e la prugessïune ‘scì lu stesse.”
Ero furioso.
Mi rasserenai a fatica, avevo le palpitazioni.
E il tempo passò, qualcuno comprò qualche libro, pian piano dimenticai l’incontro.
E quando a notte tardi prendemmo la macchina per andar via, passando per una via stretta e buia, scorgemmo dentro un negozietto di dolciumi San Francesco TimberJack e il Nazareno che si stavano scofanando una guantiera di “Sise delle monache”.
La fede sì, ma alle “sise delle monache” non si resiste e sorrisi, in fondo anche quella era stata una bella serata.
E mi tornò in mente una canzone amai molto nella mia giovinezza, cantata da Franco e i G5:
E infine mi tornò in mente anche una bella poesia di Modesto, quella alla quale sono più legato, che testimonia il mio amore per l’Abruzzo, per la mia terra:
“O Ma’, se quacche notte mi ve ‘nmente,
ti vujje fa’ na bella ‘mpruvisate
t’aja minì a purtà na serenate
‘nche stu trombone d’ accumpagnamente.
Né ride, Ma’, le sacce:
lu strumente è ruzze e chi le sone nen te fiate,
ma zitte, ca se cojje lu mumente,
capace ca l’accucchie na sunate.
Quande lu vicinate s’arisbejje,
sentenneme suna’, forse pu’ dire:
“vijat’a jsse coma sta cuntente”!
Ma tu che mi cunusce nen ti sbejje:
li si ca ugne suffiate è nu suspire,
li si ca ugne mutive è nu lamente!”
Se volete leggermi ancora “Non invecchieremo mai”, Il Viandante Edizioni