“All’ultimo piano abitava, in quella via degli Artisti 23, Paola
Borboni, con la quale ci s’incontrava quasi ogni giorno anche se
io abbassavo sempre lo sguardo, urtando la sua sensibilità d’arti 21
sta ma soprattutto di donna.
Si lamentò con Maria che c’era un giovane altezzoso che non
la salutava.
E io a scusarmi e scusarmi con Maria ma in provincia si usava
così.
Se non si veniva presentati, non ci si poteva rivolgere a nessuno,
soprattutto se più grandi di noi.
Che scemate, certo, ma era più forte di me, era come trasgredire
a una regola fondamentale, come infrangere un tabù atavico.
Mia madre ci teneva a queste regole di buona costumanza, diceva
lei, e mise fin da bambino un cappio intorno al mio collo
che, regola dopo regola, stringeva fino a soffocarmi.
Mia madre, io figlio unico e un padre violinista con la testa fra
le note, fra la Ciarda di Monti e un Ravel, che per vivere suonava
il violino e per sopravvivere lavorava all’anagrafe della mia piccola
città dai nobili natali.
Si parla di Achille, mica di uno scemo qualsiasi.” (continua)
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