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Cinema & Teatro, Luciano Odorisio

“Era mio padre” di Luciano Odorisio

 Era mio padre

“In quelle domeniche di pioggia.

Lui e il padre, due timidi, in soggezione l’uno dell’altro, ambedue inadeguati nei loro ruoli assegnati dalla natura.

Parlavano poco e di sfuggita, incontri a schivare lo sguardo, per paura dei sentimenti.

Smancerie e delicatezze non si addicevano agli uomini.

A quei tempi era così.

Il figlio non chiedeva nulla ma il padre sapeva del suo amore per la musica ed era felice di avere in lui il suo spettatore più appassionato, era felice di lasciargli un sogno da realizzare.       

Si chiudeva nello studiolo lasciando la porta accostata.

Suonava per un pubblico invisibile, suonava per lui.

Fuori, la pioggia batteva forte sui vetri.

Di domenica.

I compiti da fare.

Struggente la Czarda.

La Maiella innevata.

E il lunedì poi l’uomo sarebbe andato al lavoro, impiegato semplice, in un ufficio qualsiasi, giorno dopo giorno, stessi gesti, stessi saluti, stessi sorrisi, da quando decise di tornare, di sposarsi, di rinunciare alla vita che gli avevano promesso i suoi sogni di ragazzo.

In giro per l’Italia, l’Europa, col suo violino, al seguito del Carro di Tespi, di orchestre sinfoniche, concerti a Praga, e a Cinecittà ad incidere colonne sonore, poi qualcosa accadde, si ruppe l’incanto, e rinunciò.

E si chiuse in quel luogo triste, come ad espiare una pena, come a denunciare il suo fallimento, la sua mancanza di talento forse, le sue insicurezze, le sue fragilità.

Esiliato dalla vita dietro quello sportello dai lunotti ovali, impiegato di concetto, giacca e cravatta, ogni mattina infilava due manicotti neri di una stoffa traslucida per preservare i gomiti dall’usura.

Come ogni giorno da quando partecipò ad un concorso per un posto resosi disponibile per improvviso decesso di Carmine Pregadio che continuava ad andare in ufficio pur avendo raggiunta l’età pensionabile, grazie all’amicizia culo e camicia con un potente di allora, perché non sapeva come passare il tempo.

Invece di andare al bar o alla villa comunale, l’esimio ragionier Pregadio preferiva andare in ufficio a ciondolare fra una scrivania e l’altra.

I maligni raccontano che fu avvelenato dalla figlia Adelina Pregadio in Quaglietta che si voleva frecare l’appartamento per sé, suo marito e i due figli, più un terzo in gestazione, dell’amante si vociferava, il camposantaro Camillo Senzapace, amico d’infanzia del marito Umbertino Quaglietta.

Altri tre sportelli con altrettanti impiegati di concetto appollaiati al loro posto, allineati dietro il bancone che divideva l’ambiente in due, sapore fine ottocento, cassettiere e scaffalature in noce massello scuro, maniglie lucenti.

Alle pareti piccole lampade a palla dai vetri smerigliati, una luce fioca ovattava l’ambiente di un blando arancione simile a lume di candela.

Un corridoio centrale portava ad altri uffici, ad altri piani, ad altri impiegati di concetto.

Tutti con manicotti preserva gomiti.

Tutti a scontare una pena con l’illusione della libertà.

In quel palazzo antico dove avevano vissuto altri uomini, altre donne, e bambini, ormai lontani nel tempo, che tornavano a rivivere la notte, quando gli uffici erano vuoti, così fantasticava il figlio del violinista quelle rare volte che la madre tiranna, di cui era inconsapevole ostaggio, lo parcheggiava dal padre, poco tempo, il tempo per lei di fare la spesa, per il bambino di guardarsi attorno, conoscere i grandi, sentirli parlare, un giorno sarebbe diventato come loro.

Parlavano di argomenti che non capiva e si stupiva delle risposte pronte, riflessioni ponderate, i grandi sapevano già tutto, ma dove avevano imparato?

E sarebbe mai stato in grado di fare gli stessi discorsi, di assumere gli stessi atteggiamenti, si chiedeva sentendoli parlare.

Timore di diventar grandi.

E se non fosse stato capace?

Sarebbe restato piccolo per sempre?

Si può restare piccoli per sempre?

E li spiava.

E spiava soprattutto il padre, lui era importante.

Con o senza violino, per lui era un gigante.

Era suo padre.

Uno degli impiegati di concetto, Mauro Pellecchia detto Maurell’, sembrava preso da un solo pensiero, una sola occupazione, risolvere la settimana enigmistica.

Diploma di terza media preso alle scuole serali, truccarono il concorso quando fu assunto, grazie all’aiuto di un politico maneggione al quale la zia aveva rimosso il malocchio con degli intrugli campagnoli.

Ed era diventata la sua maga personale, lettura tarocchi soprattutto, che lui interpellava prima di qualche evento importante.

Il politico riconoscente riuscì a parlare con un pezzo grosso della commissione esaminatrice che fu felice di mettersi a disposizione.

«Se Garibaldi non avrebbe partito da  Quarto… » cominciò così l’esame orale di cultura generale l’appassionato enigmista.

«No, aspetti. Le ripeto la domanda… se Garibaldi non fosse partito da Quarto…non fosse…» lo fermò con garbo un esaminatore compunto, tipetto con pizzo e occhialini pince nez, suggerendogli il congiuntivo corretto, rimarcando la giusta declinazione per favorirlo:

«…se non fosse, signor Pellecchia, se Garibaldi non fosse partito da Quarto, quale futuro avrebbe avuto il nostro paese?»

Maurell’ ci pensò una manciata di secondi, poi rispose col sorrisino furbo del cafonetto scarpe grosse cervello fino che non si fa fregare nel gioco delle tre carte.

«Guarda, se Garibaldi non fosse partito da Quarto…»

La commissione tirò un sospiro di sollievo.

«…te lo dico io, avrebbe partito da un altro porto, sicuro com’è ver’Iddio… sennò chi cazzo lo faceva la spedizione dei Mille? »

Sgomento.

«Quell’, Garibaldi, era destino.» concluse saggio il Pellecchia.

Commissione ammutolita, ma essendo tutti prezzolati a suon di prebende varie, bisognava salvare almeno le apparenze.

Dopo qualche istante, il silenzio basito fu rotto dalla vocina esile gentile dell’unica esaminatrice donna, dall’espressione benevola stampata su un viso asciutto dagli zigomi pronunciati, “mesciata” bionda, sorriso  paziente del dovere, di quei sorrisi che nascondono a stento un accartocciamento di budella.

Con dolcezza, dopo un colpetto di tosse catarrosa, ricordo di quando era una fumatrice accanita, propose:

«Signor Pellecchia, ci dica… cosa le è rimasto dei Promessi Sposi?»

Anche in questo caso il giovane terza media prese tempo prima di rispondere, poi abbozzando il suo sorrisino “non-mi-frechi”, guardandoli tutti, velocemente, aria da volpino,  sparò:

«La bomboniera!»

La professoressa ebbe una contrazione muscolare, uno spasmo.

Si alzarono tutti in piedi, come un sol uomo, immediatamente, chi se ne frega della apparenze, e se ne andarono il giorno stesso rifiutandosi di continuare.

Ma vafangul’!

Da quel giorno la mesciata bionda riprese a fumare come una turca e a frequentare giovani di malaffare che le facessero dimenticare quell’esperienza.

E Maurell’ fu promosso a pieni voti, prese posto dietro il lunotto numero due e si dedicò totalmente ai cruciverba.

L’ultimo collega, seduto all’estremità del bancone, Antonio Crescenzio, faceva e rifaceva conti su un fogliettino di carta dove appuntava “Rata Tv Grundig” e accanto una cifra, “Rata Anglia” e accanto un’altra cifra, ogni giorno una spesa imprevista e segnava segnava, ripartendo così il modesto stipendio col quale doveva camparci moglie e un figlio e un genitore a carico che si era appena operato di cataratta.

«Chi ha spent’ la luce? » urlò una sera il suocero mentre mangiavano foje e patate.

A lui non lo raccomandò nessuno.

Era l’uomo invisibile, non lo avevano mai sentito parlare, né arrivare, né andar via.

Era lì, faceva parte dell’arredo ormai.

Si chiesero per anni come cazzo avesse avuto quel posto.

Si volava basso in quell’ufficio.

Volo radente senza passione, senza partecipazione.

In quell’ufficio che sapeva di antico, di altre vite, in quel palazzo appartenuto a chissà chi, a quelli con parrucche e feluche strette al fianco, in piedi accanto a dame sedute con ventaglio, bocche dal colore vermiglio, come aveva visto in qualche dipinto appeso nei corridoi bui il figlio del violinista.

Gli permettevano di girare fra scaffali e scrivanie al ragazzino.

Timbri, penne, carte assorbenti, matite copiative, inchiostri, pennini per il corsivo e pennini per il gotico, raccoglitori dai bordi rilucenti con pagine plastificate.

Gli avevano spiegato che c’era tutto il paese in quelle pagine, tante storie, vita e morte, battesimi, matrimoni.

In rigoroso ordine alfabetico.

In rigoroso corsivo inglese.

Tutto scrupolosamente registrato.

Come al cimitero.

Ma come cazzo c’era finito il padre, il violinista appassionato, in quella specie di sarcofago?

Ma a quel tempo questa domanda neanche lo sfiorava.

A quel tempo suo padre era suo padre e tanto bastava.

Era il suo mondo, il suo centro.

Anche in quell’ufficio.

Era suo padre.

Il suo eroe.

Un eroe triste che tornava a sorridere solo a teatro, notava il figlio.

 Si accorgeva del suo cambiamento quando lo vedeva fra oboi e clarinetti e arpe e “fiati” e “ottoni”, nel buio della fossa dell’orchestra, quando si accendevano come tante lucciole le lucine dei leggii.

Quello era il padre che preferiva perchè lo vedeva felice, quando in paese arrivavano le grandi compagnie teatrali e lui veniva chiamato per integrare l’organico dell’orchestra, finalmente lo vedeva partecipare, vivere.

Che fascinazione quel luogo, intarsi dorati, puttini scolpiti nel legno, oro argento e velluti, candelabri, il pubblico che lentamente riempiva la sala, affluendo per vari rivoli, ognuno alla ricerca del proprio posto, poltroncine imbottite, rumori ovattati, vocio bisbiglio come prima di una funzione religiosa, e si affacciavano dai palchetti belle signore e bei signori, e si affacciavano rumorosi gli spettatori più esigenti e meno facoltosi che sedevano su su in alto,  nel loggione, dove l’acustica esaltava le sonorità, almeno così dicevano gli appassionati squattrinati, mentre da un luogo invisibile, il golfo mistico, sotto il palcoscenico, dove i musicisti accordavano i loro strumenti, proveniva un complesso di suoni dissonanti, ogni strumento alla ricerca del suo “La”, suoni stridenti fra loro, disarmonici, a cazzo scherzava il direttore artistico e impresario del teatro, mio zio Ulrico.

Quel complesso di suoni poi, al comando del maestro, si sarebbe trasformato in armonia.

E arrivava il maestro.

Erano tutti di bassa statura i maestri a quel tempo, ventre prominente e capelli taglio alla “Umberto”.

E si placava l’accordatura, svaniva il brusio in una lenta dissolvenza.

Silenzio.

Il teatro era pronto.

La funzione religiosa poteva cominciare.

Si abbassavano le luci, restavano solo quelle del proscenio che illuminavano il sipario dal basso.

Un sipario di velluto rosso porpora, bordatura di filamenti dorati, che si apriva con un fruscio lieve su un altro mondo, un mondo di fantasia vissuto da persone truccate che ne evocavano altre, che fingevano intrecci amorosi, piangevano in tragedie struggenti, ridevano in commedie divertenti.

       Era un mondo magico.

       E suo padre era parte di quella magia.

       E il ragazzino ne subiva forte la fascinazione.

«Che lavoro fa tuo padre?» a volte gli chiedevano e lui prontamente e orgogliosamente rispondeva:

«Il violinista!»

Ma come cazzo c’era finito in quel luogo senza vita che era il suo ufficio?

A registrare la vita e la morte di persone sconosciute in un paese ostile e senza futuro.

Ma questa domanda non se la poneva a quel tempo.

E anche lì, a teatro, aveva il permesso di muoversi come voleva, quando arrivava con la zia e le cuginette, poteva girare dietro le quinte, curiosare fra parrucche e vestiti di seta, baffi posticci e labbra rosse, e bastoni con pomelli d’argento e ciglia finte e mantelli e fondali di cartapesta con castelli, foreste, saloni con sedie dipinte, le onde di un mare dipinto, isole lontane, vecchi che sembravano bambini e bambini che si truccavano da vecchi.

E decise che quello era il suo mondo, un mondo dove poter restare piccoli, lui che aveva paura di diventar grande, paura del mondo, poteva giocare a trasformarsi, travestirsi, entrare ed uscire da altre storie, da altre vite, senza l’angoscia di dover vivere la propria, di dover crescere.

«Come un colpo di cannooneee…» provava la voce fuori del suo camerino una sera il basso Nicola Rossi-Lemeni col cappello a tre punte di Don Basilio, viso burbero.

«…un tremuoto, un temporale, un tumulto generale che fa l’aria rimbombar…” e gli strizzava l’occhio mutando la sua espressione da burbero che si preoccupava per le Le nozze di Figaro in birichino mozartiano, cambiando tono di voce.

«Non più andrai farfallone amoroso…notte e giorno d’intorno girando…»

E il padre s’inseriva scherzoso alle sue spalle:

«…delle belle turbando il riposo, Narcisetto Adoncino d’amor…»

E ridevano insieme e rideva anche il piccolo.

Erano amici col padre, si erano conosciuti a Roma il basso Lemeni e il violinista.

«E bravo bravo…e che vuoi fare da grande?» immancabilmente la domanda.

Lui sapeva come andava a finire e aveva imparato a rispondere solo con un sorriso, tanto avrebbero cambiato discorso subito dopo.

E difatti avevano già cambiato discorso anche quella sera, in ricordo dei vecchi tempi quando giovani frequentavano trattoriole bujaccare e teatrini di periferia.

I grandi sono un po’ così, se ne strafregano dei piccoli!

E un’altra sera la soprano Maria Caniglia, altra amica del padre, origini abruzzesi, un vanto per tutti, si aggirava leggiadra dietro le quinte con un fazzolettino bianco che teneva con due dita, con la punta delle dita, pollicione e indice.

Non le serviva a nulla, ma era un suo tratto distintivo.

Un vezzo.

Maria Caniglia e il fazzolettino.

Leziosa con quel finto neo sul guancione roseo.

Il suo personaggio lo viveva anche nella vita.

«E che vuoi fare da grande, il violinista come papà?»

E lui quella volta annuì, anche perchè erano soli, nessuno li avrebbe interrotti, annuì prontamente, senza rifletterci, nel desiderio di voler essere in tutto e per tutto come il suo eroe.

E si commuoveva quando a sipario ancora chiuso, spettacolo appena iniziato, nel silenzio usciva un pagliaccio sul proscenio, struggente d’amore per la moglie che lo aveva tradito, che si rivolgeva allo spettatore in un “a parte” straziante in un angolo del palcoscenico:

«Vesti la giubba, la faccia in farina, la gente paga e rider vuole qua…»

Che emozioni.

E cavatine, assoli, gorgheggi, tuoni, fulmini, si rideva si piangeva.

Tutto finto ma le emozioni erano vere.

E alla fine applausi applausi applausi, commossi e contenti, qualche fischio dal loggione, se non altro per far sapere che c’erano anche loro, anche se non potevano pagare posti più ambiti, e lentamente come erano venuti gli spettatori andavano via, defluivano, come rivoli che si ritirano passata la piena, il teatro si svuotava e si spegnevano le luci, tornava buio, e fuori di nuovo la vita di tutti i giorni.

C’era sempre la neve a quel tempo.

E la moglie del capitano col suo sguardo obliquo e stivali a coscia, ma questa è un’altra storia.

E il mattino dopo il suo eroe era di nuovo in quell’ufficio fiocamente rischiarato, a schedare nascite e morti.

E anche il sorriso si spegneva.

E anche quel tempo passò, quel tempo che sembrava non dovesse finire mai.

Quel tempo passò e si ritrovarono insieme alla stazione, lui e il padre.

Io e mio padre.

Il violinista era mio padre e quel bambino ero io.

Non mi sarei mai aspettato che mi accompagnasse, dopo una vita trascorsa in soggezione, senza sapere l’uno dell’altro.

Eravamo lì, davanti al binario, in silenzio come al solito, aspettando che il fischio del treno annunciasse il suo arrivo.

Papà guardava a terra, io non so dove, papà consultava l’orologio al polso, io quello appeso alla pensilina, mai portato orologi, pochi minuti e sarei andato via ma sembrava che il tempo non passasse mai.

Intorno a noi non c’era nessuno, stazione deserta.

Mi colse di sorpresa quella mattina quando farfugliò a bassa voce che mi avrebbe accompagnato.

Avrei preferito andar via da solo, senza dare alla mia partenza troppa importanza.

Sarei andato, tornato, andato di nuovo.

Che senso aveva accompagnarmi?

E invece lui voleva esserci.

Senza smancerie, delicatezze, come sempre, ma voleva esserci.

Aveva capito che quella mia prima volta sarebbe stata decisiva per la mia vita.

E voleva esserci.

E mi accompagnò in filobus, non avevamo la macchina.

Non riuscivamo ad incrociare neanche lo sguardo io e il violinista, quel giorno, per il forte imbarazzo di esser soli, forse per la prima volta, io e lui.

Non era più il mio eroe da tempo, crescendo molte suggestioni si perdono.

Era solo un uomo.

Era mio padre.

Non pensavo a nulla in quei momenti di attesa, sotto quella pensilina che aveva visto tanti ragazzi partire, anche lui tanto tempo prima, con la stessa mia voglia di andarsene, volare via, inseguire i propri sogni.

A ben guardarlo, quello che mi sembrava un gigante era diventato così piccolo, spalle cadenti.

I suoi occhi color del cielo come i miei, oggi gli somiglio, sarebbe bello incontrarci ora, siamo identici, riconoscerci, tu sei mio padre, tu sei mio figlio.

A quel tempo non sapevo chi fosse, uno sconosciuto.

Qualche notizia orecchiata da frasi smozzicate e raccontini imprecisi di parenti, di mia madre, niente di più se non la mia fantasia di raffigurarmelo eroe.

Improvvisamente, nel silenzio, il campanellino squillò, avvertendoci che il treno stava entrando in stazione.

Sembrava non passasse mai quel tempo d’attesa e invece era volato, com’era volata la nostra vita fino ad allora.

E non c’era più tempo.

Il treno si stava fermando dietro di noi.

E mi vennero in mente tante domande, soprattutto una, perché era tornato, chi era l’uomo triste che avevo davanti?

Ma non c’era più tempo.

Avrei dovuto chiederglielo prima, ad avere il coraggio, a pensarci, a superare quella barriera di soggezione.

Troppo tardi, il treno sfiatava alle mie spalle.

Ero confuso, ripensandoci ancora, era quello il momento giusto, non si sarebbe presentata un’altra occasione ma sentii lo sportello aprirsi.

Cosa cazzo abbiamo fatto in quel tempo d’attesa?

Non mi restava che assecondare il futuro che mi aspettava e mi affrettai a salire un gradino.

Massì, avrei avuto sicuramente un’altra occasione.

Mi girai, lui fece un passo avanti.

Stavo andando via dalla sua vita.

Lui l’aveva capito, io no.

E finalmente ci guardammo.

Io e mio padre.

Aveva l’aria stanca il gigante, quegli occhi celesti come i miei, il gigante dagli occhi tristi.

Aveva l’aria stanca di chi ha subito una vita ingiusta, una vita impietosa con i vinti.

Mi tornò in mente quel giorno, a pranzo dalla sorella di mamma, quando mio zio, un muratore diventato imprenditore di palazzine di cartone, ridendo sguaiatamente lo prese in giro, alludendo al suo fallimento come violinista, al suo ritorno nel paesello con la coda fra le gambe.

Disse proprio così, “coda fra le gambe”:

Complice il vino bevuto durante il pranzo quella bestia di zio fu pesante con le sue battute sarcastiche.

Il mio gigante si limitò a sorridere anche quella volta, qualche parola a spiegare, ma l’altro non gli dava tregua, voleva umiliarlo, voleva riscattarsi offendendolo, tirandolo giù al suo livello, nel fango insieme a lui.

E io restai zitto quel giorno, codardo, avrei dovuto ribellarmi, difenderlo, ucciderlo, restai zitto, codardo.

Avrei dovuto ucciderlo.

Papà era fragile, era un artista, non sapeva rispondere, la sua fragilità ha deciso per la sua vita, per il suo ritorno.

Avrei dovuto uccidere quella bestia che stava profanando il mio eroe.

Prendere un coltello e affondarglielo nel petto.

Non feci nulla.

Codardo!

E papà mi stava guardando, io sul gradino, col suo sorrisino a mezza bocca, appena accennato, per alcuni attimi pensai mi volesse rimproverare la codardia di quel giorno, invece mi diede un paio di colpetti sul braccio, colpetti carezze, veloci, a non far capire che erano carezze, e subito dopo:

«Non tornare…»

Avevo capito bene?

Mi aveva spiazzato completamente.

«Non tornare…non fare come me…non ho avuto coraggio…ho avuto paura…ma tu non tornare..».

Restai congelato, un ebete, avrei dovuto saltargli al collo, abbracciarlo, non feci nulla, sciocco, codardo ancora una volta.

Mi limitai ad annuire e salii il predellino.

Lui annuì un paio di volte accennando un mezzo sorriso, come era solito fare.

Risposi alla stessa maniera.

Era quello il nostro saluto.

Neanche ci toccammo, abbracci banditi.

Il treno sfiatava a sbuffi, odore di ferraglia, di olio bruciato.

Mi aveva colpito al cuore.

Quanto gli dev’esser costato quel saluto, quanta violenza sulla sua natura schiva.

Cazzo!

Cazzo!

Cazzo!

Nessun abbraccio o stretta di mano, niente!!!

Non aggiunse altro, io non volli sapere di più.

Non aveva vissuto la sua vita, si era accontentato.

Non volli sapere di più, era davanti a me, occhi celesti come i miei, ci somigliavamo, mi stava dando quella forza in più che mi mancava, mi stava chiedendo di riprendere il suo sogno e viverlo al posto suo.

E partii da quella fottuta stazione di un paese dimenticato da Dio e dagli uomini per riprendere quel sogno interrotto, continuarlo, e regalarglielo.

Così gli avrei dimostrato di esser diventato grande, di potersi fidare, come due amici, nessuna timidezza, mi avrebbe passato il testimone con i suoi ricordi.

E avremmo finalmente parlato, mi avrebbe raccontato di sé e io di me…

Ma non feci in tempo!

Struggente la Czarda.

In quelle domeniche di pioggia.

I compiti da fare.

La Maiella innevata.”

da “Memorie di un vizioso di provincia”, raccolta di racconti appunti e cazzeggi vari di prossima pubblicazione

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