Lontani quei tempi quando lui la incontrò per caso, capelli sciolti biondissimi su un volto paffuto guancione rosse come una matrioska, ad Innsbruck, in una serata di pioggia, su un tram che cigolava anche quando stava fermo, cigolava e sfiatava, nello scomparto puzza di olio di freni e di ferraglia, destinazione, voluto dall’arciduca Ferdinando II per custodirvi i ritratti di Casa d’Asburgo.
Colpo di fulmine, lui occhi azzurri bellissimi faccia tozza da muratore italiano in cerca di una vita dignitosa, un cinghialetto pronto alla monta, lei cameriera al ristorante Ambras ricavato al piano terra del Castello.
Il giovanissimo Capabianca dormiva in una pensioncina proprio in quella zona, in uno stanzone sei ragazzi, con altri cafonetti come lui, soprattutto con il cugino che gli aveva trovato lavoro nel suo cantiere.
«Eeh? No, no, io essere italiano, essere arrivato mò mò, io Italia… ‘o sole miooo…», ma si piacquero, non ci fu più bisogno di parole.
E la stessa notte si abbandonarono a danze teutoniche ondeggiando abbracciati e mano nella mano con altri sconosciuti slavati su panche e tavoloni di legno di pino cembro in una balera di periferia tutta boccaloni di birra spumeggiante e wiener schnitzel mit kartoffeln e sempre la stessa notte trombarono come forsennati in un giardinetto accanto alla balera.
Al primo orgasmo lei esplose in un inaspettato falsetto liberatorio ricco di combinazioni di vocali e consonanti senza senso “jo-hol-di-o-u-ri-a”.
Senza senso almeno per Ninni che lo sentiva per la prima volta.
Uno Jödel squillante dissonante che svegliò tutto il vicinato intorno al parco e riaccese i motori della virilità nel giovane virgulto che se la trombò altre tre volte di seguito.
Seguirono altri tre gorgheggi da Jödel, variando le tonalità di volta in volta, come coriandoli colorati, gioia infinita.
Al terzo Jödel gli abitanti della zona, boccheggianti esausti sfiniti, chiamarono la polizei per far smettere quella cagacazzo invasata, ma i due piccioncini riuscirono a volar via poco prima che i gendarmi irrompessero nel parco e ponessero fine a quel concerto di sesso e vocalizzi.
Lui grugniti da cinghialetto lei flauto traverso, un delirio.
Il mattino dopo ognuno per la propria strada, senza lasciarsi uno straccio di riferimento o telefono, goduria di una serata, sesso libero, Ninni si pavoneggiava al bar con gli amici le poche volte che tornava dalle sue parti.
Lui felice di vivere in un paese così civile, non come in Italia che all’epoca dovevi sposarti per il primo bacio o quasi.
E una sera, quindici mesi e 18 ore dopo quella notte più una manciata di minuti e secondi, sullo stesso tram, cigolante e sfiatante come al primo incontro, stessa puzza di olio di freni e di ferraglia, stessa pioggia, stessa destinazione, il Castello di Ambras in lontananza, sulla collinetta che sovrastava la città, il destino li fece incontrare di nuovo, lei con in braccio un batuffolo di neonato con gli occhi celesti come Ninni, il piccolo Johannes.
Il muratore si commosse, scoppiò a piangere e una settimana dopo diventarono marito e moglie.
Ninni e Margareta Capabianca andarono a vivere a Monaco di Baviera, svastiche e Lili Marleen, uniti per la vita in un’orgia di Jödel e grugniti, Arbeit Macht Frei.
Per l’occasione si fece biondo ariano.
E il ragazzo scarpe grosse cervello altrettanto grosso ne dedusse che a differenza dell’Italia, nella civile Mitteleuropa prima si trombava e poi ci si sposava, opzione quest’ultima molto legata ad una botta di harsh, di culo insomma, alla fortuna d’incontrarsi di nuovo.
(Continua)
da “Il paese che non c’era…” di Luciano Odorisio
di prossima pubblicazione