di Veronica Gentili per Il FQ, 21-9-19
L’ esilarante meme che troneggia sui nostri schermi ormai da qualche giorno è la trasposizione di Jep Gambardella, cinico e indimenticabile protagonista de La grande bellezza:“Io non volevo solo partecipare ai governi. Volevo avere il potere di farli fallire”, chiosa un Matteo Renzi in bianco e nero, svettante tra Carlo Buccirosso e Galatea Ranzi.
ABITUATI ormai a foto parodie che condensano in una riga analisi politiche più efficaci di una mezza dozzina di editoriali, dobbiamo constatare che questa volta l’ironia fotografica non ha colto nel segno. Una considerazione che può essere fatta con certezza infatti è che se l’Italia di Renzi è “viva”il governo Conte è vivo e vegeto come mai lo è stato finora.
Lo scissionista di Rignano è stato, dal principio degli abboccamenti giallorossi di mezza estate, tanto il principale sponsor quanto la maggiore incognita dell’intesa: la determinazione e l’incertezza rappresentavano del resto due facce della stessa medaglia. Il desiderio di abbandonare il Pd e formare un nuovo partito, per poter portare a compimento ciò che aveva iniziato a preparare ben prima della crisi di agosto, è stato alla base di ogni singola mossa del neo statista illuminato sulla via della responsabilità nazionale:
Matteo Renzi aveva disperatamente bisogno di tempo. Più che l’aumento dell’Iva ciò che urgeva disinnescare al “senatore semplice ma senza perdere la complessità” era il rischio di un rinnovo dei gruppi parlamentari, scenario che avrebbe soffocato in culla la creatura tanto attesa, la cui gestazione ha accompagnato gli ultimi tre anni almeno di vicende politiche italiane.
E non mentiva quando diceva che le elezioni andavano evitate nel nome di un bene superiore: salvo il fatto che quel bene superiore più che nella messa in sicurezza del Paese dalla destra di Salvini fosse individuabile nelle messa in sicurezza di uno “spazio del futuro, dove i millennial possano fare la differenza”, Italia Viva per gli amici.
In altre parole, se qualcuno, dopo tanto parlarne, doveva finalmente derenzizzare il Pd, quel qualcuno non poteva essere che lui stesso. Non c’è dunque da stupirsi che il derenzizzatore abbandoni il partito subito dopo aver indicato una linea a cui il partito si è pedissequamente adeguato, se quella linea è stata dettata proprio al fine di poter abbandonare il partito, dopo aver messo in salvo le truppe.
Voler vedere nella scissione, indubbiamente a freddo dato l’evidente tasso di premeditazione, di Matteo Renzi il disfacimento ragionato di quella fusione a temperature altrettanto glaciali in cui nel 2007 i Ds e la Margherita scelsero di convolare a nozze “finché Renzi non ci separi”, è indubbiamente un eccesso interpretativo, se per uno Scalfarotto e una Bellanova (entrambi ex Ds) che seguono il centro di Renzi, ci sono un Franceschini e un Delrio (entrambi Partito popolare prima e Margherita poi) che restano impassibili nel Pd.
La sensazione è piuttosto quella che l’ex rottamatore abbia deciso di anticipare i tempi prima che le sirene di Franceschini, le cui soavi melodie sembrano già aver incantato Luca Lotti e Lorenzo Guerini, finissero per irretire troppi potenziali “italiani vivi”.
Se poi invece si dovesse capire che i Marcucci e i Lotti sono stati volontariamente lasciati indietro a far la sentinella, si potrà affermare che, paragonandosi a Machiavelli come ama fare, Matteo Renzi fa torto a se stesso e alle proprie capacità.
AL MOMENTO la sola certezza è che il ragazzo ha ancora disperatamente bisogno di tempo per “ripartire con lo zaino per una strada meno battuta e parlare con la gente”, perché alle prossime elezioni 40 parlamentari rischia di non vederli nemmeno col cannocchiale.
Il governo Conte 2 può dunque dormire sonni tranquilli.
Anzi, il 2023 è decisamente troppo vicino: fosse per Matteo, lo farebbe prorogabile.