di Marco Travaglio per Il FQ, 23-01-20
N on commento la decisione di Luigi Di Maio di lasciare la guida del Movimento 5 Stelle perché l’avevo già commentata con un bilancio di pregi e difetti, meriti ed errori l’11 gennaio (“L’onore delle armi”), quando il Fatto diede la notizia in anteprima grazie a uno scoop di Luca De Carolis e tutti gli altri si sforzarono di smentirla.
Non solo lo staff del M5S, a cui avevamo rovinato l’effetto sorpresa. Ma i soliti giornaloni (memorabile il titolo di Repubblica “Di Maio non lascia, ma raddoppia: insieme a lui una donna leader”: infatti arriva Vito Crimi). Semmai ci sarebbe da commentare questa informazione all’italiana, ormai così mal messa che, quando si imbatte in una notizia vera, non la riconosce e rimane sgomenta, smarrita, senza parole.
Il che aumenta vieppiù la comicità delle cronache politiche, già peraltro irresistibili di per sé. Noi, lo dico sinceramente, non abbiamo più parole per descrivere quel che fanno i due Matteo.
Ci vorrebbero Fruttero e Lucentini, come scrive Settis a pag. 13. Il minore, Renzi, voleva abolire la prescrizione finché la legge Bonafede non l’ha abolita. A quel punto, ha deciso che rivuole la prescrizione.
Il 18 febbraio 2015 il capogruppo in commissione Giustizia del suo Pd in Senato metteva a verbale testuali parole: “La posizione ufficiale del Pd è che la prescrizione deve cessare di decorrere dopo l’emanazione del decreto di rinvio a giudizio”.
E il neoresponsabile giustizia di Iv, all’epoca Pd, Giuseppe Cucca firmava col collega Casson un emendamento semplice semplice: “La prescrizione cessa comunque di operare dopo la sentenza di primo grado. Il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la notizia di reato viene acquisita o perviene al pubblico ministero”.
Ora che la legge Bonafede la blocca solo dopo il primo grado, Renzi strilla come una vergine violata. E vincerebbe l’Oscar della comicità, se non gli fosse insidiato dall’altro Matteo.
L’idea di citofonare a un tizio per chiedergli se spaccia droga, oltre a fargli sospettare che cercasse roba buona e a istigarlo a sparargli in base alla riforma della legittima difesa, apre squarci inesplorati nella vita politica. Intanto perché, oltre a ritrovarcelo fra le palle appena accendiamo la tv o ci connettiamo ai social, rischiamo da un momento all’altro di vedercelo sotto casa appeso al campanello, in
Così, come ha fatto ieri un consigliere 5Stelle nella sede della Lega, chiunque vorrà potrà citofonare e domandare se per caso abbiano notizie dei 49 milioni. Ma il sistema di giustizia citofonica inventato dal noto garantista padano può contribuire non poco a sveltire i tempi delle indagini e dei processi.
Si va in un quartiere a caso di una città scelta, si chiede nei bar sport se ci sia in giro qualche delinquente, si segna il nome e l’indirizzo, poi si citofona: “Scusi, lei è un delinquente?”. “Lei è un pusher?”. “Lei fa il pappone?”. “Lei rapina le banche?”.
A quel punto, i casi sono due.
1) L’eventualità più probabile, vista la predisposizione del delinquente medio a confessare al citofono: il tizio risponde “Sì, sono un delinquente, ho appena rapinato una banca”. “Io invece scippo vecchiette un giorno sì e l’altro pure”. “Io, appena entro in un supermercato, frego di tutto”. Nel qual caso è inutile perder tempo in indagini o processi: si porta il reo confesso al cospetto di Salvini, che pronuncia una sentenza irrevocabile e immediatamente esecutiva, a seconda della nazionalità e del reato. Se il tizio è africano o asiatico (israeliani a parte) e/o dedito a reati comuni, lo ficca in galera e butta via la chiave. Se è di pura razza italiana e specializzato in reati finanziari, contro la Pubblica amministrazione o di istigazione al razzismo, lo candida nella Lega.
2) L’eventualità più improbabile: il tizio nega di essere un delinquente, o perché non lo è, o perché lo è ma per misteriosi motivi non tiene a farlo sapere. Nel qual caso, decide Salvini, che non sbaglia mai e ha sempre ragione. Dunque condanna sicura; o, in subordine, candidatura in Parlamento, nei casi specifici di cui al punto 1.
La nuova giustizia citofonica porterà a un balsamico sveltimento dei tempi e a un benefico snellimento delle procedure, perché a quel punto si processeranno soltanto quelli che non sono in casa o non rispondono al citofono. Altro che blocco della prescrizione, altro che legge Bonafede: questo ci vuole per far funzionare la giustizia.
Anche il caso Gregoretti, invece di far perder tempo al Senato e al Tribunale dei ministri, si risolverà così, senza costringere il Cazzaro a cambiare idea a ore alterne perché non ha ancora capito perché vogliono processarlo e su cosa devono decidere il Senato e il Tribunale (tant’è che, dopo aver detto che non vuol essere processato e aver fatto votare la Lega in giunta per essere processato, ora pare che stia meditando di farla votare in aula per non essere processato: tanto i suoi cazzari si butterebbero pure in Po, a gentile richiesta).
Meglio semplificare.
Salvini si citofonerà da solo, in diretta Facebook, e si domanderà: “Scusa, Matteo, tu per caso hai sequestrato 131 migranti su una nave della Guardia Costiera nel porto di Augusta?”.
E, dopo rapido autointerrogatorio allo specchio o su Instagram, si risponderà: “Io? Ma se non ero neppure al Viminale! Stavo al Papeete, io!”.
Poi si giudicherà da solo, in qualità di Pm, Gip, Gup, Tribunale, Corte d’appello e Corte di Cassazione.
E dovrebbe proprio uscirne assolto, semprechè l’avvocato non sia la Bongiorno.