Luciano Odorisio, Politica

Travaglio: Il guappo di cartone e il guardiano del “baro”

Stralcio dell’editoriale di Marco Travaglio per Il FQ. 12-05-19

“(…)

Lui, non a caso, teme più la cronaca e la satira che le prediche e le invettive con la bava alla bocca e il ditino alzato. 

Come tutti i palloni gonfiati di cui ciclicamente una certa Italia s’infatua (Montanelli li chiamava “guappi di cartone”): da Mussolini a Craxi, da B. a Renzi. 

I più abili a comunicare – o per padronanza o per possesso dei mezzi di comunicazione – durano lustri. 

Quelli più scarsi si sgonfiano presto. Per ora non sappiamo a quale categoria appartenga Salvini, protagonista di una parabola tecnicamente strepitosa. Nel 2013, dopo 33 anni di militanza, prese la Lega al 5%, ancora tramortita dagli scandali, e l’ha portata al 17,4% nel 2018 e al 30% negli ultimi sondaggi. 

Alle Europee del 26 il suo sarà il primo partito d’Italia: se si votasse alle Politiche, il 27 sarebbe convocato da Mattarella per l’incarico di premier e, grazie al Rosatellum che assegna la maggioranza dei seggi alla coalizione che supera il 40% dei voti, guiderebbe un governo di centrodestra. 

Ma ormai la politica si confonde con la psicologia (o con la psichiatria) e scambia i sondaggi per voti veri. 

Dunque, fino a qualche giorno fa, la forza di Salvini, puramente virtuale, era stimata oltre il 35% in marcia verso il 40, con i 5Stelle quasi doppiati poco sopra il 20, a un passo dal Pd che qualcuno dava in fase di sorpasso. 

Ora invece, secondo il sondaggio Ipsos di Nando Pagnoncelli sul Corriere, la Lega ha perso 6 punti in tre settimane e naviga sul 30-31. 

E il M5S risale al 25, distanziando un Pd stagnante al 20. 

Tecnicamente, questi dati sarebbero un trionfo per Salvini e uno smacco per Di Maio, visto che il primo guadagnerebbe 13 punti e l’altro ne perderebbe 7 in 15 mesi. 

Ma psicologicamente sarebbe una brusca discesa per chi da mesi se la tira da padrone e annuncia la resa dei conti post-voto. Il sondaggio, fra l’altro, s’è chiuso l’8 maggio, dunque include la fase iniziale del caso Siri. 

M a non la cacciata del sottosegretario per mano di Conte e Di Maio, né l’ulteriore schiacciamento a destra di Salvini col libro edito da un fascista, né la nuova Tangentopoli lombarda col leghista Fontana indagato. 

E lo scandalo Siri e lo spostamento a destra sono, secondo Pagnoncelli, le cause principali della brusca retromarcia leghista. 

Fatto il pieno di voti leghisti e di destra prima e dopo le elezioni del 2018, Salvini si era spostato su posizioni meno estreme, attirando voti da FI e dal M5S. 

Come Marine Le Pen che, imbarcata tutta la destra francese, si buttò al centro, scomunicò il padre, cambiò nome e simbolo al partito e partì alla caccia dei voti moderati di Sarkozy. 

Ora invece il ritorno di Salvini all’estrema destra ha messo in fuga un bel po’di moderati, verso l’astensione, il M5S e FdI (la Meloni è meno connotata – a dispetto di certi compagni di strada – sul nostalgismo fascista e più sul conservatorismo vecchio stampo, infatti è ormai a un passo da FI). 

Siccome Salvini, da ministro, non ha combinato quasi nulla, è sulla comunicazione che s’è giocato tutto: le risalite e le discese ardite. 

E proprio lì, da un paio di mesi, ha infilato una serie impressionante, quasi inspiegabile, di errori

la foto pasquale col mitra

il flirt con Casa Pound

il comizio con gli ultrà cattolici a Verona

la banalizzazione del fascismo il 25 Aprile

la difesa di una causa persa in partenza come Siri (se l’avesse cacciato subito, come Di Maio con De Vito, lo scandalo sarebbe sparito dalle prime pagine: invece è durato 20 giorni, fino allo smacco finale), 

le parole inutili e truculente tipo “castrazione chimica”, la plateale assenza da Napoli dopo il ferimento della piccola Noemi, 

la strampalata campagna contro l’innocua cannabis legale che dà lavoro a 10 mila persone. 

Tutte mosse che non gli han fatto guadagnare nuovi elettori (quelli di destra-destra già votano per lui) e gliene han fatti perdere parecchi, fra i leghisti doc refrattari al malaffare e gli orfani di B. allergici a estremismi e fibrillazioni. 

Questi settori flottanti dell’elettorato si fidavano del Salvini che, l’8 dicembre in piazza del Popolo, citava De Gasperi, Luther King e papa Wojtyla. Ma, ora che torna a rintanarsi negli angoli più neri e bui della storia, si rifugiano nell’astensione. 

Ed è proprio a loro che parla Conte, col suo stile pacato, rassicurante e ora anche decisionista, su temi più cari ai 5Stelle che alla Lega. 

Intanto Di Maio incassa i frutti delle leggi più demonizzate dai profeti di sventura: l’avvio ordinato del reddito di cittadinanza e l’aumento di posti di lavoro stabili dopo il dl Dignità, a dispetto di chi vaticinava caos e licenziamenti di massa. 

Smette di inseguire Salvini sui temi leghisti, imponendo quelli del M5S senza più il timore che la Lega apra la crisi. 

E va a riprendersi i voti ceduti al Pd e all’astensione, che poi sono gli unici recuperabili (anche se sbaglia a dissociarsi dalla Raggi che mette la faccia a Casal Bruciato, osannata dalla sinistra). 

Del resto, in questo governo, il M5S ha un senso solo se svolge il ruolo che Bossi rivendicava per sé nel 1994, da alleato-rivale di B.: “il guardiano del baro”. 

Almeno finché il pallone non si sgonfia un altro po’.

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