Luciano Odorisio, Politica

Sfida tra Ong e governo è tutta politica

Stralcio di un articolo di  Stefano Feltri per Il FQ, 28-6-19

“(…) IL CODICE richiede alle Ong di astenersi dai comportamenti che possono semplificare il lavoro ai trafficanti e renderle complici, magari in buona fede, del commercio di disperati (non entrare nelle acque libiche se non in situazioni di emergenza, non spegnere i trasmettitori di posizione, collaborare con la politica). 

Sea Watch, Ong tedesca con navi battenti bandiera olandese, non firma: la sua azione deve restare autonoma da ogni ingerenza governativa. 

DUE ESTATI DOPO, il ministro dell’Interno è Matteo Salvini e la linea non è più coordinare le Ong ma sradicare l’ultima rimasta, Sea Watch, la quale, a sua volta, non prova più a muoversi nelle pieghe di una normativa fluida, ma vuole lo scontro frontale con il governo italiano in una forma di disobbedienza civile. 

L’ultima crisi si è risolta il 19 maggio quando il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha sequestrato la nave Sea Watch per accertare se erano stati commessi reati dal capitano e dall’equipaggio, una mossa che ha portato alla rottura dello stallo perché dalla nave sequestrata i migranti andavano fatti scendere. 

Per questo Salvini ha voluto il decreto Sicurezza bis che introduce sanzioni amministrative fino a 50.000 euro per il capitano, così da creare un disincentivo parallelo a quello penale (la nave viene sequestrata in caso di violazione reiterata del divieto di sbarco). 

E arriviamo all’attuale caso Sea Watch 3 e a tutte le sue ambiguità giuridiche. Il 12 giugno la nave dell’Ong salva 53 persone al largo della Libia. 

Come da prassi chiede ai governi di Italia (coordinamento delle operazioni mediterranee), Malta (Paese vicino) e Olanda (Paese di bandiera) dove portarli. 

Risposta: in Libia. 

Primo ostacolo: la convenzione di Amburgo dice di portare i naufraghi in un porto sicuro, place of safety. 

Il ministero dell’Interno dice che la Libia risponde al requisito, l’Onu, Organizzazione internazionale delle migrazioni e la Commissione europea dicono di no, perché la Libia non ha firmato al Convenzione di Ginevra sui rifugiati, è uno Stato in una guerra civile latente e i migranti vengono confinati in lager gestiti dai trafficanti. Sea Watch ha una base giuridica, quindi, per non andare in Libia, ma la scelta di puntare sull’Italia è politica, naviga verso lo scontro. 

Gli avvocati di Sea Watch chiedono al Tribunale amministrativo del Lazio di sospendere il decreto ministeriale di Salvini che vieta l’ingresso nelle acque italiane della nave. 

Il Tar respinge il 18 giugno con una doppia motivazione: dopo un’ispezione sanitaria sono già sbarcate dieci persone (minori, donne incinte) in condizioni di salute precarie, gli altri al momento non sono vulnerabili, “eventuali situazioni emergenziali possono essere risolte con le medesime modalità già praticate a cura delle Autorità competenti dello Stato”. 

Ma il Tar poi precisa che non è compito suo stabilire la legittimità delle scelte di Salvini, può soltanto accertare se il decreto che vieta l’ingresso della Sea Watch è conforme ai criteri fissati dal decreto Sicurezza bis appena approvato. La “tutela del diritto di asilo o di altri diritti fondamentali” compete alla giustizia ordinaria, non a quella amministrativa. 

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) risponde in modo analogo alla richiesta di applicare “misure urgenti”, cioè lo sbarco, da parte di Sea Watch. Ricorso respinto: finché il governo italiano (che quindi è responsabile) garantisce assistenza alle persone a bordo, non ci sono le basi per giustificare uno sbarco forzato, poiché le persone più vulnerabili sono già scese. 

L’esito è un po’ paradossale: il governo che non vuole i migranti sul proprio territorio li può tenere in mare soltanto se assicura loro assistenza sanitaria, cibo e acqua, cioè le stesse cose che darebbe loro sulla terraferma ma in modo più economico. 

LA PROSSIMA tappa giuridica può essere soltanto portare il decreto Sicurezza bis alla Corte costituzionale, ma ci vuole prima un processo e un giudice che ne metta in discussione la costituzionalità. 

A quel punto la Consulta si troverà un po’in imbarazzo: il decreto Sicurezza bis è stato riscritto su indicazione del Quirinale. 

Bocciarlo significherebbe dire che il Colle ha avallato un decreto incostituzionale su un tema così delicato.”

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