di Andrea Scanzi per Il FQ, 14-01-2020
Che si dimetta o meno da leader a ridosso dell’ennesimo disastro elettorale, ovvero quelle Regionali dove i 5 Stelle rischiano a) di superare a fatica il 5% e b) di far vincere Salvini, Luigi Di Maio pare al capolinea.
Parlare di lui è difficile perché spesso lo si critica a prescindere, bastonandolo odiosamente sotto la cintura. Per esempio chiamandolo “bibitaro” (non lo è mai stato e non sarebbe comunque un’onta esserlo stato).
Oppure alludendo vilmente al suo essere un “omosessuale della lobby gay grillina con la fidanzata di cartone”, accusa (?) mossa da chi pensa ancora che dare a caso del gay a un altro sia un insulto, quando è quasi sempre l’ultima mossa dei prostatici omofobi a fine corsa (ogni riferimento alle spoglie mortali di Sgarbi e Feltri non è forse casuale). Luigi Di Maio non è il colpevole unico dell’agonia grillina.
E resta probabilmente il meno peggio tra i (non) leader presenti nel Movimento.
Cambiare il vertice è lecito, ma rischia di sortire l’effetto che ebbe il sacrosanto esonero di Giampaolo al Milan: puoi anche mettere in panchina Giosafatte in persona, ma se la rosa è moscia esonerare l’allenatore serve a poco.
IL PROBLEMA del M5S è che, oggi, non è né carne né pesce: non ha una visione, non è né di lotta né di governo, non incarna la protesta e nemmeno la dirigenza.
Si è come condannato a una lenta implosione al rallentatore, tra scazzi personali e faide bambinesche, e Di Maio è un problema ma non il problema.
Ciò detto, il leader 5 Stelle ha sbagliato tanto.
Se fino a febbraio 2018 ha indovinato ogni mossa, da giugno 2018 Di Maio è diventato un Calimero condannato all’autogol.
Prima oscenamente assoggettato a Salvini, ora odiosamente malmostoso con Zingaretti.
Le non poche cose buone fatte, unite al coraggio di non essere presidente del Consiglio (gli sarebbe bastato baciare la pantofola a Berlusconi o accettare le sirene di ritorno del Cazzaro Verde), sono naufragate di fronte ai troppi harakiri.
A proposito di harakiri: l’incontro con le frange estreme dei gilet gialli. La baracconata della “santa teca” dentro la quale c’era la tessera numero 1 del reddito di cittadinanza.
La scenetta surreale dal balcone. Il tragicomico “aboliremo la povertà”. Il delirante “mandato zero”. Eccetera.
a) Di Maio si è sistematicamente sopravvalutato. Si è preso due dicasteri difficilissimi (Ilva, Whirlpool) e poi, dal nulla, si è inventato Churchill andando alla Farnesina. Con quale competenza?
b) Andando agli Esteri, Di Maio ha lasciato sguarnito il Movimento, che – col capo lontano – ha cominciato a mugugnare e congiurare. Di Maio ha reagito tardi, con livore e tagliando teste a caso.
c) Quando si è trovato in difficoltà, è ricorso troppo spesso alla mitologica “piattaforma Rousseau” per buttare la palla in tribuna.
La frittata è stata completata dalla cosiddetta “base”, che prima ha salvato Salvini sulla Diciotti (il punto più basso del M5S) e poi ha varato il suicidio in Emilia-Romagna e Calabria, decidendo di correre (si fa per dire) da soli.
Un leader vero si sarebbe preso la responsabilità di lasciare Salvini al suo destino (come sulla Gregoretti) e di star fermo un giro nelle due regioni ora al voto.
d) Di Maio ha subito la decisione di Grillo di governare col Pd. Tra un Di Battista fermamente contrario e un Fico apertamente a favore, è stato nel mezzo. Indossando il muso lungo dei bambini bizzosi.
In estrema sintesi: Di Maio è (stato) un ottimo oppositore nella precedente legislatura; un (triplo) ministro onesto e tutto sommato decente; e un leader dal fiato corto.