di Pina Fasciani
Se c’è un elemento che viene fuori dal voto in Umbria e dai voti precedenti è quello di volere, da parte dell’elettorato, un leader forte capace di dare risposte.
Una spinta sollecitata da anni , da tutti. Tutti quelli che nel populismo hanno affondato i piedi e hanno esaltato il capo.
Lo fa Salvini, lo ha fatto Berlusconi, lo ha fatto e lo fa Renzi. Destra e sinistra insieme.
Si è seminata questa idea, è diventato substrato culturale, è stata tesa una rete che ora raccoglie i frutti. Le leggi elettorali, dal porcellum, al rosatellum ne hanno sancito il valore e come contraltare la totale insignificanza delle articolazioni istituzionali democratiche.
Prova ne è lo svuotamento del ruolo del Parlamento, piegato al volere del capo, fino alle istituzioni più periferiche diventate i terminali dei voleri centrali del capo.
Se guardate le regioni, tipo l’Abruzzo, dove il centrodestra ha vinto, non si muove foglia se il capo di turno non approva. In Umbria i sindaci di destra hanno avuto un grande ruolo per il voto, si sono mobilitati pancia a terra per il Capo .
I commentatori del voto, che si susseguono in TV, sia di destra che di sinistra, mettono l’accento sulla sconfitta di questo o di quello, ma a nessuno viene in mente di spostare l’accento sul dato, sul segno di fondo di questi voti : l’Italia vuole un uomo forte perché la crisi ha picchiato duro e perché ritengono la politica, che è mediazione, non più in grado di dare risposte. Roba da fare tremare i polsi.
Tanto è vero che l’unica proposta politica esistente, su cui per la verità bisognerebbe lavorare meglio, quella di strutturare una alleanza tra la sinistra e il M5S viene ampiamente combattuta ,sminuita, ostacolata.
Se guardate bene su questo fronte si ritrovano tutti quelli che a vario titolo sono stati e sono a sinistra per il partito populista leaderistico e liquido, a destra per un populismo sovranista , nazionalista. Tutti e due uniti nella lotta.
I Mattei ne sono i teorici, i protagonisti principali. Di Maio ne è il teorico ambiguo.
Ma mentre il capo leghista non ha fatto il Presidente del Consiglio e quindi ha ancora del credito, il secondo, il capo vivaista, lo ha fatto e il credito se lo è giocato ampiamente.
Due facce della stessa medaglia, con un M5S che si autopone ai margini.
Ora attendiamo il voto delle altre regioni, ma se non si spezza il vortice del capo che risolve problemi, gli esiti saranno già belli che scritti.
A meno che la politica e i problemi degli italiani non tornino in primo piano tramite un progetto politico condiviso tra chi, anziché del Capo , guarda al popolo non per usarlo ma per ascoltarlo.
Per farlo non si parte da Roma, ma dalla periferia. È lì che la sinistra può ricominciare, azzerando i sepolcri imbiancati .
Solo così la democrazia sarebbe al sicuro e le avventure reazionarie sconfitte.