bellissimo articolo di Leonardo Coen per IlFQ, 16-04-2019
“Alle otto meno dieci di una sera che mn dimenticheremo mai – maledetto 16 aprile, lunedì di una Settimana Santa che si è trasformato in catastrofe culturale – la sottile ed altissima guglia di Notre-Dame de Paris, avvolta dalle fiamme, s’inclina lentamente e crolla, tra vampate che si alzano improvvise e feroci al cielo, tra colonne di fumo dense come nuvole di tempesta, ed è come una freccia che si ficca nel cuore di tutti i parigini, di tutti i francesi, di tutti noi.
Quel che resta della cattedrale di Parigi è ormai una gigantesca macchia rossa, il rosone scaglia lampi color carminio perché il fuoco spinto dal vento si riflette come i fari che regolano le navi, il tetto non c’è più, il fumo impesta l’aria.
Brucia il monumento che incarna la storia, la cultura, l’identità di Parigi e dei francesi.
Certe volte, la sera, camminando alla sua ombra, Notre-Dame de Paris diventava più viva di me.
Mi raccontava il passato della nostra comune cultura, la fatica geniale di chi l’aveva ideata e costruita, come tutte le grandi cattedrali, un’opera cominciata nel dodicesimo secolo e durata quasi duecento anni: l’era delle cattedrali attraversava e, in un certo modo, creava l’Europa unita dalla fede ma anche dalla cultura, dall’arte, dalla speranza.
Più di un semplice luogo di culto, Notre-Dame de Paris…
Louis-Sébastien Mercier che pubblicò alla fine del diciottesimo secolo, Tableau de Paris (preziosa guida che inaugura il gusto del dettaglio che Proust renderà immortale) diceva che provava l’illusione – come un ultimo battito davanti all’Eterno – di percepire il Bene e il Male separati dai suoi muri, l’illusione resa ancor più fantastica perché credeva di captare l’odore mescolato di rose e di sangue.
Victor Hugo ci sedusse con il dramma del gobbo Quasimodo, disperato protagonista di Notre-Dame de Paris.
E ANCORA, oltre a queste fascinazioni letterarie, c’è lo scorrere lento e magico della Senna vicina, il rumore avvolgente della città, i passi rispettosi degli ultimi turisti mentre la notte le faceva da sudario, l’eco di musiche lontane (il Quartiere Latino oltre il ponte), il ricordo meraviglioso di quando a Natale, tra sciabolate di formidabili son et lumières, cantava Madeleine Renaud, ed era un inno alla sfida dell’ingegno, un omaggio alla nostra comune civiltà, uno sberleffo all’usura del tempo.
No- tre-Dame era scampata agli agguati bellici: qualche col- po del Parisgeschütz il gigantesco cannone tedesco (cugino della Grosse Berthe) l’avevano sfiorata, nella Prima guerra mondiale e altre cannonate avevano provato a scalfirne la maestosità.
Ecco, mistero e ideali. Per i parigini, il luogo dove tro- vare riparo dalla rovina dell’attualità: uno spazio anacronistico, un monumento dall’aspetto e dal carattere fortemente simbolici, quindi indispensabile. Più della Tour Eiffel, alla quale contendeva il plebeo ma vantato record di monumento più visitato d’Europa (14 milioni ogni anno).
Simbolo di pace, di concordia, di unità.
Che supera largamente la sua funzione religiosa.
Se la Tour Eiffel è Parigi, Notre-Dame de Paris è la Francia.
Qualche amico francese raggiunto per telefono, non cela lo choc, però mi dice: “La vie continue”, la vita continua, domani, aggiunge, l’incendio sarà domato, “ci sono 400 vigili del fuoco. Poi, ci vorranno venti, forse trent’anni perché torni come prima, semmai la vera questione è: quanto ci costerà?”.
MA INTANTO, quelle fiamme iconoclaste divorano la storia, bruciano il cuore di Parigi, inceneriscono la memoria, offendono l’identità di un popolo.
Re, papi, imperatori, presidenti sono stati osannati e pianti, in quella magnifica cattedrale gotica, dove le cerimonie religiose erano spesso cerimonie di Stato, come se l’anima della Francia fosse affidata (talvolta consacrata) tra le mani di Dio.
Le immagini sono impietose.
Improvvidi paragoni con le Twin Towers dell’11 settembre. Lì fu un attentato e un olocausto.
Qui è un disastro. Propagato dal fuoco che illumina dantescamente la notte di Parigi, come una discesa all’Inferno.
Tra- smettono una grande tristezza: il fumo generato dalle fiamme è la nebbia del nostro dolore.
Dicono, gli amici di Parigi, che all’ombra di quelle pietre si è più pensato, più scritto, più immaginato.”