Cinema & Teatro, Luciano Odorisio, Politica

Nell’America di Trump non c’è posto per Woody Allen

C’ è dell’antisemitismo negli Stati Uniti. Difficile spiegare diversamente la fatwa contro Woody Allen, senza editori per la sua autobiografia, ridotto a far uscire il nuovo film A Rainy Day in New York nella sola Europa (per una volta l’Italia ha dato il buon esempio attraverso la Lucky Red). 

Il #metoo è un evidente pretesto per giustificare il neo maccartismo; più probabile la vendetta di Amazon dopo il flop della serie girata da Allen, dichiaratosi amaramente pentito dell’esperienza. Ma in questa riedizione della lotta all’arte degenerata c’è qualcosa di più profondo. 

A parte il fatto che l’arte è degenerata o non è, che cos’è l’antisemitismo se non l’odio per il diverso? Se l’intelligenza è l’anima della diversità, Allen è sempre stato un diverso, uno dei rari cineasti statunitensi a perseverare nello stile, un simbolo del cinema d’autore. 

In un’epoca in cui il regista è diventato un burattino interscambiabile al servizio delle major, è rimasto sempre più fedele a se stesso, fino alla maniera. Come se non bastasse, l’ultimo Allen si è fatto più pessimista, nevrotico, sulfureo fino alla disperazione. 

L’artista degenerato andava punito, bisognava solo prendere al balzo la palla giusta. Se proprio vogliamo parlare di censura, parliamo di cose serie. Più di quanto è criptofascista l’Italia di Salvini, parliamo di quanto è criptonazista l’America di Donald Trump (naturalmente parliamo di pulsioni inconsce, le più profonde: l’inconscio va al nocciolo della questione).

di Nanni Delbecchi per Il FQ, 18-05-19

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