Il sondaggio mensile di Pagnoncelli per il Corriere ci conferma in modo eclatante alcune tendenze.
1 c’è un asso pigliatutto, e si chiama Matteo Salvini. È il traino unico dello stupefacente raddoppio (virtuale) in soli otto mesi dei voti alla Lega, che già il 4 marzo aveva più che quadruplicato rispetto al 4% delle elezioni 2013. È l’interprete perfetto, per argomenti e modalità mediatiche, di pulsioni e esigenze che si sono fatte strada tra gli elettori. A ognuno di noi può piacere o al contrario inquietare, ma in sede di analisi questo è un dato di fatto.
2 tutto l’arco della sinistra ha perso il bandolo della matassa. Abituato a vivere al di sopra delle sue possibilità elettorali (cinque anni di governo, due presidenti della Repubblica eletti nella stessa legislatura, i principali ruoli rappresentativi tra organismi istituzionali, autorità di garanzia, imprese di interesse pubblico, guida delle Camere e delle principali commissioni parlamentari, il tutto grazie al 25% ottenuto nel voto 2013) il Pd non riesce a superare i postumi del kappaò di marzo, nè se ne avvantaggiano gli scissionisti di LeU, anzi. La netta impressione è che quei partiti non abbiano in sé gli strumenti e le energie per una severa autoanalisi e il necessario radicale cambiamento. Come se il cambio di stagione politica li avesse messi irrimediabilmente fuori corso. Anche qui, può piacere o far disperare, ma un centro-sinistra sotto il 20% e incapace di contrastare l’inerzia dei suffragi rischia di essere fuori gioco.
3 il MoVimento 5 stelle perde virtualmente quattro punti rispetto a marzo. È vero che punta a riscuotere il dividendo politico-elettorale che dovrebbe derivargli dall’introduzione del reddito di cittadinanza, ma è ancor più vero che soffre visibilmente la leadership di immagine di Salvini, ben più forte di quella di Di Maio. Il m5s ha un nocciolo duro di elettori più alto di tutte le altre forze politiche, ma l’erosione nel voto di opinione, se si confermasse a maggio, potrebbe aprire dei problemi. Ma resta il dato di fondo: non esisteva elettoralmente prima del 2013, ha esordito con il 25% e al secondo colpo ha preso il 33%. E la sua percentuale nel sondaggio, sommata a quella dell’alleato di governo, fa un totale di oltre il 63%, con pochi riscontri a livello internazionale.
4 la crisi di Forza Italia appare irreversibile. Essendo un partito da tempo strutturato sul territorio, e nelle giunte di alcune regioni tra le più importanti, mantiene comunque una fetta di elettorato in un centro-destra che però è ormai egemonizzato dalla Lega. Con un fondatore e leader ultraottantenne e un delfino che è il presidente del Parlamento Europeo, non precisamente un’istituzione popolarissima in questa fase, si trova nello scomodo ruolo di sleeping partner in un’alleanza che credeva di dominare per sempre. Diverso il discorso per Fratelli d’Italia, altrettanto marginale ma almeno già dall’inizio in sintonia con le nuove linee forti della destra. La sua collocazione all’opposizione (non scelta) può giovare al partito della Meloni dal punto di vista tattico. Ma è difficile pensare a un futuro fuori dal recinto salviniano.
Enrico Mentana