Luciano Odorisio, Politica

Massimo Cacciari:”Basta con le primarie!”…urla nel silenzio!

Antonio Floridia nel suo blog ci racconta che Il Pd si avvia al congresso, e che gli annunci delle candidature si moltiplicano: ma di che cosa si tratterà effettivamente?

Potrà essere una vera occasione di confronto politico?

O si ridurrà, come tutto lascia presagire, ad una disputa sulla leadership, da risolvere nella corsa ai “gazebo“?

Basta con le primarie!“, ha detto Cacciari, ma stenta a farsi strada la consapevolezza di quanto questo partito sia intrappolato nelle sue stesse regole.

Si parla di “congresso“, ma il termine – com’è ormai noto – non è nemmeno previsto nello Statuto, dove si parla piuttosto di “scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea Nazionale” (art. 9).

Il modello di democrazia interna che regge la vita del Pd non è ispirato ai principi della democrazia rappresentativa, ma ad una concezione che è giusto definire apertamente plebiscitaria.

Con ciò si vuole intendere precisamente una visione della democrazia in cui la funzione preminente è quella dell’investitura di un leader, a cui “il popolo” (nel nostro caso, “il popolo delle primarie”) conferisce un’autorizzazione al comando.

Un “popolo“, peraltro, del tutto indefinito, che nulla a che fare con gli iscritti e i militanti: un “corpo sovrano” che si materializza al momento del voto, e poi svanisce.

Lo stesso massimo organo rappresentativo del partito, l’Assemblea Nazionale, non è eletto sulla base di un autonomo processo di legittimazione democratica, ma è composto sulla base del voto ai candidati alla segreteria, ciascuno dei quali ha una lista (bloccata) collegata. I membri dell’organismo, perciò, non sono resi autonomi e politicamente forti e autorevoli da un processo elettorale che li renda realmente rappresentativi di un corpo associativo e dei suoi diversi orientamenti: piuttosto, sono strettamente dipendenti dal consenso che riceve il candidato-segretario a cui sono collegati.

Insomma, nel Pd è il leader a far eleggere gli organismi dirigenti, non sono questi ultimi ad eleggere un segretario.

Gli organismi dirigenti, data la loro modalità di elezione e composizione, divengono così organi di mera ratifica: la loro natura pletorica, peraltro, li rende sedi altamente inadatte per un dibattito che possa preludere alla formazione di orientamenti condivisi o per una discussione collegiale.

Il Pd non è un partito che possiede una ben definita base associativa, la quale a sua volta elegge organismi che rappresentino gli orientamenti politici presenti nel partito.

Organismi che, a loro volta, possano individuare la personalità che meglio può esprimere gli orientamenti prevalenti e, nel contempo, sia in grado di operare, quanto più possibile, ai fini di una sintesi per “tenere insieme” tutto il partito.

Nulla di tutto questo: il Pd è altra cosa.

La piramide è rovesciata: da una parte, un segretario eletto da un corpo indefinito e mutevole di elettori, che contratta il consenso con una filiera di notabili e dirigenti, delegando loro il controllo del partito periferico; dall’altra parte, un’Assemblea Nazionale, e poi una Direzione, che sono un mero riflesso di questa logica top-down, prive di un’autonoma fonte di legittimazione democratica.

Questa è una (non la sola) delle storture che caratterizzano il modello politico e organizzativo del Pd, una delle cause (insieme, ovviamente, alle scelte politiche compiute nel corso degli anni) della situazione quasi comatosa in cui versa questo partito (la sua organizzazione territoriale è “collassata“, ha detto con ammirevole schiettezza Maurizio Martina, nel suo intervento all’Assemblea Nazionale del 7 luglio scorso).

Ma c’è un’adeguata consapevolezza di questa condizione?

A dire il vero, ogni tanto si leva qualche voce per chiedere un “vero congresso”, ma non sembra che il problema sia affrontato in tutte le sue implicazioni.

Per fare un “vero congresso”, occorrerebbe:

a) azzerare le attuali regole;

b) redigere un regolamento congressuale straordinario che preveda la presentazione di mozioni-piattaforme, in cui si dica chiaramente che idea si ha di questo partito, del suo profilo ideale e programmatico, della sua strategia;

c) non eleggere direttamente il segretario, ma degli organismi rappresentativi a tutti i livelli che eleggano, poi, un segretario.

Come si vede, si tratta di ipotesi che, allo stato attuale, non sembrano molto facili da prevedere: innanzitutto perché a decidere queste modifiche statutarie dovrebbero essere gli attuali organismi, in cui l’area renziana continua ad esercitare un rilevante potere di veto.

E quest’area non ha alcun reale interesse a cambiare regole del gioco che, male che vada, le garantiscono una presa sul partito e sui suoi equilibri di potere.

Il Pd, insomma, è intrappolato nel suo stesso impianto fondativo.

Del resto, a quale platea si rivolgeranno le future primarie?

Il Pd è un partito ormai svuotato e rattrappito, che ha modificato profondamente le sue stesse ragioni sociali: è un sintomo evidente delle condizioni in cui versa questo partito il fatto stesso che siano molto aleatori i dati sugli iscritti e che non si sappia nemmeno quale sia stato, in questi anni, il loro turn-over (ossia il tasso di abbandono, e quello di parziale ricambio e sostituzione).

Renzi, così, può conservare intatto il suo appeal presso questa base residuale e, soprattutto, presso un ampio notabilato locale cresciuto alla sua ombra, che mantiene il controllo sulle strutture periferiche del partito ed è in grado di portare ai gazebo i propri sostenitori.

Quello che sorprende piuttosto è il modo con cui si stanno muovendo i suoi oppositori/concorrenti.

Tutto si sta svolgendo dentro il perimetro sempre più asfittico dell’attuale Pd: si pensa davvero, in questo modo, di poter appassionare alla disputa sul segretario del partito le centinaia di migliaia di elettori e militanti che se ne sono già andati?

E, allo stato attuale, quali ragioni e motivazioni questi potrebbero mai ritrovare per tornare ai gazebo?

Un “vero congresso” forse potrebbe esserci se venisse aperto uno confronto sulle regole stesse con cui “contarsi“, che sarebbe un modo per chiarire la propria idea di partito.

Se il congresso si svolgerà seguendo il copione che si sta prefigurando, è ben difficile che il Pd possa rifondarsi.

A quel punto, si dovrà finalmente prendere atto che lo strano esperimento avviato dieci anni fa è fallito e che impegnarsi a rinnovare questo partito è un fatica improba, destinata a scontrarsi con l’inerzia dei meccanismi che lo hanno plasmato.

Prenderne atto sarebbe una liberazione per tutti, la premessa necessaria per ricostruire una sinistra nel nostro paese.

 

 

Ed ora spettacolooooo…

 

 

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