di Caterina Abbate
Mi è capitato spesso, su Facebook, di imbattermi in discussioni sul tema dell’alternanza Scuola-Lavoro, introdotta nella Legge 107/15, la cosiddetta Buona Scuola.
Tranne qualche breve commento marginale, non mi sono impelagata in discussioni che spesso degeneravano, a causa della faziosità di molti e della ignoranza di tanti.
Invece l’argomento richiede una seria riflessione.
L’Europa suggerisce, l’Italia risponde. La normativa è ricca di buone intenzioni, ma ne ho ricevuto l’impressione di parole in libertà, di un approccio burocratico, senza che ci si cali nella realtà della vita degli studenti e dei territori nei quali le istituzioni scolastiche operino.
Tutto bello il rapporto col mondo del lavoro, ma l’applicazione pratica della norma lascia molto a desiderare.
In teoria l’attività dell’alternanza dovrebbe fare sempre capo alla scuola, è sempre formazione e non è mai lavoro.
Gli studenti devono avere la possibilità di esprimersi sull’attività secondo un preciso regolamento.
Leggete invece cosa è accaduto agli studenti in alternanza scuola-lavoro del Vittorio Emanuele II, un prestigioso liceo napoletano.qui
L’alternanza, che dovrebbe essere attività formativa, diventa molto spesso tempo sottratto allo studio.
Ma lo studio è cosa seria e difficile, ed è soprattutto lavoro disinteressato.
Antonio Gramsci a tal proposito, scriveva:”Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.”
Una vera formazione è conquista personale, non si ottiene nulla osservando il lavoro degli altri o imitandoli.
Anche sul piano della tecnologia, se si osservano le attuali pratiche, sicuramente, quando i nostri giovani entreranno nel mondo del lavoro, saranno obsolete.
C’è un tempo per studiare, un tempo per lavorare.
Mi riferisco anche alla mia esperienza personale.
Ho iniziato a lavorare a sedici anni: durante le vacanze estive preparavo dei ragazzi per gli esami di riparazione a settembre.
All’inizio le mie cavie erano dei cugini.
Sperimentavo su di loro un metodo di lavoro mutuato dai miei insegnanti e non chiedevo soldi. Li aiutavo, era la giustificazione,ma
intanto, grazie a loro, ho imparato il mestiere di insegnante.
Ebbi in regalo, dopo la loro promozione agli esami, degli anelli che conservo ancora.
Il mio tirocinio avveniva d’estate.
Si sparse la voce ed i miei alunni aumentarono di numero.
Iniziai a guadagnare abbastanza, anche se costavo poco.
Quando terminai la scuola e mi iscrissi a Lettere, le lezioni private divennero il mio lavoro.
Ero molto impegnata, cosicché non frequentavo molto le lezioni all’università ed in seguito anche il lavoro per la tesi procedette a rilento.
Mi dico sempre: o lo studio, o il lavoro.
Certo le due attività possono coesistere, ma lo studio inevitabilmente ne risente.
Mi laureai infine quando smisi le lezioni private e mi dedicai alla tesi.
Quante volte ho rimpianto il tempo sprecato per guadagnare un compenso nemmeno elevato!
Per comprare una borsa o un vestito in più.
Perciò, quando conquistai la mia cattedra a scuola e divenni prof di ruolo, non volli più tenere alunni per casa a pagamento.
Sarebbe stato troppo onerosa l’alternanza lavoro-lavoro e avrebbe sottratto tempo prezioso alla famiglia.
Per qualche lira in più.
Giusto di tanto in tanto, ho offerto un supporto libero e gratuito a chi doveva affrontare esami di maturità o tesi di Laurea. Per semplice affetto, per il piacere di farlo.
Il mio tirocinio è finito, ma ormai sono diventata brava e posso essere disinteressata.