“Quella dei Gilet gialli, in Francia, è una sollevazione che viene da lontano: dalle periferie, innanzitutto, dalla provincia e dalle campagne che da sempre custodiscono l’identità profonda di San Luigi, della Pulzella e degli irriducibili galli.
Una cosa è la Republique, un’altra è la Francia.
Sono le due distinte facce di uno stesso destino. E una cosa è quel che deriva dalla Rivoluzione francese, e ben altro è la Francia in rivolta.
NAZIONE E ISTITUZIONE, infatti, non coincidono se i francesi – per la prima volta nella loro storia – vedono insorgere, per sopravanzare perfino, una delle due remote identità: accanto alla Marianna giacobina c’è pur sempre, pronta al tumulto, Giovanna d’Arco.
È come un nuovo albo di Goscinny e Uderzo il racconto dei roventi giorni parigini.
Asterix e la provincia dei tartassati potrebbe dirsi, anche se la vicenda del caro carburante è stato un pretesto, tanto è in cottura – tra vampe che vanno a far cenere di liberté, egalité e fraternité – la rabbia popolare.
La Crise, il film di Coline Serreau è infatti del 1992 e già lì, il personaggio di Micheau, in larghissimo anticipo ha ben chiaro il passaggio alla vera partita doppia della rivendicazione sociale di oggi: da un lato il popolo, dall’altro l’élite.
Il miserrimo Micheau di Saint Denis, interpretato da Patrick Timsit, insofferente rispetto agli ideali della Republique si ritrova a essere rintuzzato dai benestanti di Neuilly: “Quello che lei non capisce è che l’essere razzista non sistemerà i suoi problemi personali”.
Da un lato l’élite, dall’altro il popolo, appunto, Micheau: “Ah beh, sì, ma quello che capisco è che tre quarti del pianeta stanno nella merda, allora cercano di piazzarsi dove c’è meno merda, cioè qui da noi e poi, una volta qui, bisogna che qualcuno si stringa per farli sopravvivere, è ovvio…”.
Il sazio non capisce il digiuno perché ancora una volta, l’élite, redarguisce il povero Micheau – “Vabbè, appunto…” – che comunque, mosso da rabbia, una risposta la trova: “Ah sì, ma finora chi si è stretto per fargli posto sono quelli di Saint Denis, mica quelli di Neuilly”.
È un copione del 1992, sembra la cronaca del 2019. Nel frattempo, rispetto al film, è cambiato il fantasma di Le Pen.
Non è Jean Marie quello di oggi, ma neppure è Marine – sebbene i sondaggi indichino una marea intorno a lei, il Convitato che indossa i gilet gialli per assillare i Don Giovanni dell’élite rivendica il primato della politica su qualunque obbligo ideologico.
Quel che è stato impossibile fino ad adesso – la dismissione delle categorie di destra e di sinistra – è a portata di mano.
Non potrà essere l’onda blu di Marine a farsi carico della rivolta in atto, per la sua biografia personale – per l’inciampo ideologico – e quel che i Gilet gialli incontrano sul proprio cammino è appunto il senso della storia: la Francia che regola i conti con se stessa.
“L’asse verticale popolo-élite”, per dirla con Alain de Benoist – giusto ieri su La Verità – “sostituisce l’asse orizzontale destra-sinistra”.
E a nulla vale l ’ anatema dell’establishment che persevera nella triplice esclusione dei dissidenti – social e, culturale, politica – per mostrificarli, i Gilet, e chiunque scenda in piazza con loro, alla stregua di pupazzi al soldo di Vladimir Putin laddove ogni diversa veduta rispetto all’Eliseo è declassata al rango infimo delle fake news.
Al solito, non avendo cura di fronteggiare la realtà, risulta più comodo l’esorcismo.
Un rituale – è questo delle trame del Cremlino – già rodato con la Brexit, con la vittoria di Trump negli Usa, con la sconfitta di Renzi al referendum perfino.
NON SAPENDO spiegarsi il perché delle cose che cambiano si ricorre alla criminalizzazione.
Questo è il format con cui il liberismo se la racconta la nostra epoca, giusto per consolarsi.
Non può che avere sbagliato, il popolo, a votare i populisti in Italia.
Non possono che essere manovrati dai russi, i Gilet gialli, ma la Francia che pure insegnò la “rivoluzione” agli americani – per non tacere della continuità intuita dagli storici del calibro di Luciano Canfora tra il giacobinismo e il bolscevismo – fa oggi i conti con se stessa, restituendosi a ciò che non se n’è mai andato via nonostante la “laicità” totalizzante.
Ed è la viva pienezza di una sovranità “abitata” nelle periferie, nella provincia e nella campagna.
I luoghi, questi, giammai diventati – com’è successo e come continua ad accadere in Italia – “periferia”, ovvero posti senza un “avvenire”.
Un abitare che “avviene” è questo dell’albo Asterix e la provincia dei tartassati.
Un abitare, da sempre, nella volontà politica di farsi largo “ora e sempre”– direbbe Obelix scagliandosi addosso ai nemici – contro l’invasore.
Sia quando questi arriva con gli allori di Cesare, sia – ancora peggio – con le stellucce della bandieruccia europea.”
di Pierangelo Buttafuoco