Tutti hanno vinto: Salvini col botto, Zingaretti resuscitando il Pd e perfino Meloni. L’unico a perdere è il capo politico che dovrebbe dimettersi: su di lui il ministro dell’Interno ha condotto il delitto perfetto
di Simone Cosimi per Wired
“Il conto è presto fatto, al di là delle attese, in gran parte confermate se non per la misura del tracollo a 5 Stelle (17,1%).
Fra i leader politici dei primi quattro partiti alle elezioni europee, tutti hanno centrato il proprio obiettivo. Matteo Salvini, ovviamente, che nel giro di un anno ha ribaltato le percentuali rispetto al M5S, salendo al 34,3%.
Nicola Zingaretti, che ha resuscitato un Pd dato per estinto in pochissimo tempo (le primarie dem si sono tenute solo a inizio marzo) facendone, in questo momento, la seconda forza del Paese (e a ben vedere, lo era anche alle scorse politiche) col 22,7%.
Di Silvio Berlusconi poco o nulla si può dire, visto che si tratta di un partito proprietario programmato per autodistruggersi ma che tuttavia tiene all’8,8%.
Volendo lanciarsi oltre i primi quattro schieramenti delle elezioni europee, perfino Giorgia Meloni ha portato a casa quasi il doppio di quattro anni fa e due punti in più del 4 marzo 2018.
L’unico che perde su tutti i fronti è Luigi Di Maio: non solo il Movimento 5 Stelle dimezza i consensi rispetto a un anno fa ma sfigura perfino nel confronto più logico (anche se politicamente meno fondato) da fare, quello con le europee 2014, quando il “capo politico” avviò la sua parabola col 21,1% dei voti.
Colpa dell’astensione soprattutto al Sud, ha detto. E il risultato è ancora più impressionante se si considera che le prime erogazioni del reddito di cittadinanza, arrivate in quantità massiccia proprio nel Mezzogiorno e a cavallo del periodo elettorale.
Non una riflessione, finora, né una presa di coscienza né alcun genere di autocritica: perché un partito che prende il 32% e ritiene di aver ben lavorato subisce dopo pochi mesi di potere un crollo tanto drammatico?
Dopo il quarantennio di Democrazia Cristiana e il ventennio di alternanze fra Berlusconi e i diversi perimetri di centrosinistra, almeno dal 2013 ogni tornata elettorale è destinata a rimescolare il panorama politico.
Uno shock continuo.
Salti percentuali un tempo impensabili, o frutto di un percorso molto lungo, possono oggi avvenire nel giro di pochi mesi, grazie al carisma reale o presunto del leader di turno (prima Renzi, poi Di Maio, con Salvini che dopo l’epoca berlusconiana si è furbescamente reincarnato nel “capitano dei sovranisti”) e di come questi riesca a declinare, in gran parte grazie alla (dis)informazione, i tre-quattro soliti temi che toccano le pance delle persone ma nulla incidono in chiave di sviluppo, prospettive per il futuro, crescita reale: immigrazione, tassazione, sicurezza e altri piccoli fronti, spesso fasulli, utili solo a drogare il clima generale.
Uno scenario tripartito, in cui l’unico bipolarismo in Italia è quello del M5S: i più appassionati alfieri hanno spiegato per anni, accodandosi al fondatore Beppe Grillo ora eclissatosi, di essere il solo argine alle destre.
Ma, per non perdere l’unica occasione di governo, dal giugno del 2018 ne sono diventati prima trampolino all’interno dell’esecutivo e poi utili idioti scimmiottanti (chi si ricorda i “taxi del Mediterraneo”?).
Fino al contrappasso elettorale di ieri sul quale nulla ha potuto l’ennesima virata in salsa pseudoliberal di Di Maio delle ultime settimane pre-voto: dopo un anno di compromessi, a partire dal principe dei masochismi che è il “contratto di governo”, ma soprattutto di mediazioni al ribasso, Di Maio sembra vivere a gran velocità lo stesso destino di Renzi.
Ma se quest’ultimo si è ucciso da solo a iniziare dal referendum costituzionale del 2016 e dalla sua incapacità di difendersi con la politica dall’avvelenamento leghista, su Di Maio si è consumato il delitto (politico) perfetto.
Non senza il contributo del leader di Pomigliano, ovviamente, ma con un elemento preponderante salviniano. Quasi la cronaca di una morte annunciata.
Dei due alleati all’esecutivo, il Movimento è infatti parso in questi mesi quello davvero di governo, lasciando alla Lega (sparring partner solo nei numeri) la libertà di fare opposizione dall’interno, di alzare le pretese spesso più per esercizio di tenuta che per reale volontà, di battere i piedi e anche, in certi frangenti – come quello che stiamo vivendo, immediatamente post-elettorale – di dimostrarsi magnanima e comprensiva.
Ma pur sempre gestendo il potere senza il peso dell’istituzione. Campo libero, dal decreto sicurezza ai conflitti istituzionali, dal forcing sui conti pubblici all’umiliazione dei diritti civili passando per la Tav, fino al voto contrario al processo per Salvini in merito ai sequestri delle imbarcazioni di soccorso ai migranti.
La Lega ormai nazionale – ha conquistato perfino Emilia-Romagna e Umbria – ha condotto il gioco dal primo minuto del governo Conte spolpando consensi ovunque, ma soprattutto – come dimostrano le analisi del flusso di voto di YouTrend – dallo stesso elettorato pentastellato e da Forza Italia.
Il M5S ha inseguito, abbozzato, tentato (invano) di trovare nuovi fronti utili perdendo un pezzo delle preferenze, tornate nell’astensionismo e in quota significativa anche al Pd, perché ha incassato senza poter (o volere?) reagire.
Non avrebbe d’altronde potuto: in quanto partito post-ideologico non ha posizioni specifiche da difendere né una storia a cui rifarsi.
Dovrebbe parlare con i fatti e in piena trasparenza: ha parlato a denti stretti, circondandosi di incompetenza e conflitti d’interesse, da personaggi come il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli alla Casaleggio Associati che ne decide le sorti.
A un leader responsabile, a cui questi e infiniti altri elementi non possano sfuggire, non rimarrebbe che annunciare la fine di un governo Frankenstein che ha partorito provvedimenti (oltre che risultati) mostruosi e dimettersi dalla guida del Movimento.
Di Maio non lo farà, almeno non nell’immediato anche se sarà durissima resistere agli strappi di Salvini, perché significherebbe sparire dalla scena politica portandosi probabilmente dietro l’intero partito, se non rischiare di trasformarlo in una riserva indiana affidata ad Alessandro Di Battista e al suo populismo della decrescita bolivariana. Davvero un capolavoro.