di Domenico De Masi per Il FQ, 04-02-20
Per quanto riguarda i 5 Stelle, la situazione è questa: gli analisti esterni danno il Movimento per morto; i protagonisti interni ne parlano come se fosse più vivo e vegeto che mai; i partiti concorrenti si disputano le spoglie.
Tutti e tre gli atteggiamenti sono degni di riflessione ma, dal punto di vista sociologico, il più intrigante è quello dei protagonisti interni. Il buon vecchio Robert Michels, con il testo che lo rese famoso (La sociologia del partito politico) e che risale al 1911, ci ha insegnato che tutti i partiti politici nascono in forma di movimento, con strutture e programmi nebulosi.
Somigliano a mucchi di sabbia agitati dal vento. Poi, man mano, alcuni riescono a consolidarsi, a strutturarsi, a diventare mattone, a darsi una visione e un programma trasformandosi in partito moderno. Ma la maggioranza dei movimenti non riesce a superare lo stato nascente e si dissolve in corso di trasformazione.
La prima fase dei 5 Stelle è stata sociologicamente esemplare in tutti i suoi ingredienti: una forte, diffusa, intransigente istanza di base contro la casta; una casta sufficientemente ebete e perfida per destare l’odio necessario; due leader – Grillo e Casaleggio senior – entrambi eccentrici alla politica, sicuramente geniali, perfettamente complementari; un vuoto politico che chiedeva di essere colmato; una popolazione con tasso di istruzione da Terzo mondo (23% di laureati); uno sbando europeo simmetrico a quello italiano.
Fino al 25 febbraio 2013, quando i 5 Stelle si presentarono alle elezioni e ottennero il 25% dei voti, il percorso evolutivo con cui il movimento si andò trasformando in partito non sbagliò un colpo.
Il quinquennio 2013-2018 (XVII legislatura) sarebbe stato perfetto per completare la trasformazione in partito: i loro 109 deputati e 54 senatori, reclutati, per forze di cose, alla meno peggio, avevano davanti a sé il tempo e il luogo per farsi una cultura politica e una cultura tout court; Grillo e Casaleggio avevano altrettanto tempo a disposizione per scovare e formare i membri di una nuova classe dirigente. Inoltre, avrebbero dovuto e potuto elaborare il modello di società necessario per proporre il Movimento come forza-guida del Paese.
La vasta simpatia di cui godevano i 5 Stelle avrebbe consentito di attrarre un buon numero di intellettuali e valorizzarli nell’elaborazione di quel modello. Invece, proprio in quel quinquennio, la lunga marcia cominciò a mostrare le prime debolezze.
Molti parlamentari, lungi dal correggere le proprie deficienze culturali, vi aggiunsero la presunzione; non pochi abbandonarono il Movimento e passarono ad altri gruppi parlamentari. La gran parte esibì una smaccata incapacità di reggere un ruolo troppo complesso per attori così fragili, baciati da uno status e da uno stipendio esorbitanti rispetto ai meriti.
Un timido tentativo di invertire la tendenza fu avviata da due deputati – Claudio Cominardi e Tiziana Ciprini – e incoraggiata da Beppe Grillo, con la realizzazione di ricerche sociologiche sul futuro del lavoro, della cultura e del turismo.
Ma, in quel quinquennio, l’unico a crescere sostanziosamente sul piano sociopolitico fu Luigi Di Maio che, diventato vicepresidente della Camera appena 26enne, seppe mettere a profitto la carica usandola come una sorta di master teorico-pratico.
Quando, nel 2018, il Movimento si ripresentò alle elezioni, ben 40 dei 163 parlamentari erano fuggiti; Casaleggio senior era morto nel 2016; Grillo si era ritirato sull’Aventino e Di Battista aveva intrapreso il suo vagabondaggio terzomondista.
Rispetto al 2013 Di Maio era l’unico vero prodotto aggiunto del Movimento, e lo dimostrò conducendo da solo una trionfale campagna elettorale che portò i 5 Stelle dal 25,5 al 32%. Da qui in poi l’ascesa di Di Maio, che appariva irresistibile, in realtà pose le premesse per il declino suo e di tutto il movimento.
Assumere quattro cariche – due ministeri, la vicepresidenza del Consiglio e la direzione del Movimento – gli impedì di guidare la transizione definitiva del Movimento in partito, ne mise in evidenza parecchie lacune culturali, lo pose a rimorchio di Salvini, cui regalò un quarto dei suoi elettori, mentre un altro quarto si disperse tra gli astensionisti.
Grazie ai provvidenziali errori di Salvini, i 5 Stelle si sono trovati, per un puro caso provvidenziale, ad allearsi con il Pd, certamente meno becero della Lega, e a operare nell’area di sinistra, certamente più consona ai valori fondativi del Movimento.
A questo punto tutto convergerebbe nell’opportunità di spostare a sinistra l’asse del Movimento: buona parte dei simpatizzanti per la destra se ne sono già andati con Salvini; la divaricazione crescente tra ricchi e poveri, con relativa mortificazione della classe media, induce al bipartitismo; Grillo, che resta il riferimento più intelligente, indica la sinistra come approdo naturale del partito in formazione; il “decreto Dignità”e il Reddito di cittadinanza rappresentano le uniche conquiste serie, decisamente di sinistra, di cui il Movimento può vantarsi. Conte, che è più colto e perciò più svelto, lo ha capito e si è subito dichiarato disponibile per un’alleanza strutturale con il Pd.
In Di Maio, invece, prevale un’intima matrice di destra, rafforzata dal desiderio di pugnalare Conte alle spalle. E lo ha fatto con quattro gesti: la riproposizione di una fantomatica “terza via”; la presentazione di una lista autonoma alle elezioni in Emilia; le dimissioni anticipate a pochi giorni dalle votazioni; la reggenza a Crimi, che insiste nel proporre i 5 Stelle come ago neutrale della bilancia politica e nel volerli riportare alla fase movimentista primordiale, che è come riportare un adolescente nell’utero materno invece di farne un adulto.
Se si rilegge l’intervista data giovedì scorso da Crimi a questo giornale, insieme al libro Politicamente scorretto di Di Battista, si capisce quale vuoto di pensiero strategico affligge i vertici dei 5 Stelle.
Per riprendere la marcia che porta dal movimento al partito occorrerebbe fare una scelta di campo, che può guardare solo a sinistra; eliminare subito il limite dei due mandati, che castra il gruppo dirigente escludendo i meno inesperti; affidare la leadership ai meno incolti e ai più convinti della scelta di campo; mettere al lavoro i migliori cervelli interni e chiedere aiuto ai migliori intellettuali esterni per elaborare un geniale modello di società; intraprendere un’intensa azione pedagogica nei confronti del personale politico, degli iscritti e dei simpatizzanti; creare e gestire direttamente qualcosa di simile alla piattaforma Rousseau, smettendo di pagare parcelle e subordinazione politica alla “Casaleggio e Associati”.
Una recente ricerca Eurispes ha appurato che il 18% dei 5 Stelle ritiene l’Olocausto un’invenzione giornalistica. Basterebbe questo dato per dimostrare il poco lavoro fatto e il molto che occorrerebbe fare.