di Savatore Settis per Il FQ, 24-8-19
La metamorfosi di Giuseppe Conte da premier per caso a campione della cultura istituzionale (e costituzionale) è un interessante enigma del nostro tempo.
Se ne sono escogitate spiegazioni diverse: un machiavellico accordo dietro le quinte fra M5S e Pd, la voglia di restare a galla a ogni costo, una personale avversione a Salvini, l’asse con Mattarella, o Merkel, o Macron, o Von der Leyen, o altro ancora.
LA CARATURA sostanzialmente impeccabile del suo discorso al Senato ha sorpreso tutti, ma nessuno più di Salvini, prontissimo a coprirsi di ridicolo con una conversione a U spinta fino a rilanciare l’alleanza che aveva appena sepolto; dando per scontato, evidentemente, che Conte dovesse più o meno di buona voglia allinearsi.
Ma la metamorfosi di Conte ha un’altra spiegazione, confermata da non pochi indizi.
Proiettato a Palazzo Chigi dalla debolezza della coalizione giallo-verde, il premier malgré lui è apparso al principio disorientato, incerto nel definire e giocare il proprio ruolo istituzionale, pronto a mediare a ogni costo pur di tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, disposto a chiudere gli occhi su quel che accadeva nel governo e in Parlamento pur di tenere in piedi la coalizione, tributario dei suoi due vice piuttosto che autonomo vertice dell’esecutivo.
Eppure, col passare del tempo, Conte ha saputo acquistare sicurezza, costruire su una solida cultura giuridica di fondo una visione del proprio ruolo conforme non a stravaganti “contratti”, ma a Costituzione; e quando Salvini ha preso l’abitudine di dire “il mio governo” non gli ha risposto direttamente, ma ha cominciato a dire “i miei ministri”.
Facendo leva sul desolante provincialismo dei suoi vice, ha saputo gradualmente acquistare a Bruxelles lo spazio e la stima che a Roma gli venivano negati.
Ha trovato la forza di citare sempre più spesso un articolo della Costituzione che conosceva benissimo sin dal principio, l’art. 95 secondo cui il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile”.
Ha frenato l’autonomia regionale d’impronta leghista, anche se fondata su una riforma costituzionale di centrosinistra e su un’intesa firmata da Gentiloni, illustrando le proprie ragioni in una puntuale lettera ai cittadini del Veneto e della Lombardia pubblicata sul Corriere della Sera del 21 luglio.
AGLI OCCHI DI MOLTI (come Emma Bonino nel suo intervento al Senato), questi e altri indizi di autonomia di giudizio e senso istituzionale non bastano a spiegare fino in fondo perché tanto spesso, fino a qualche mese fa, egli abbia chinato la testa controfirmando di fatto comportamenti, idee, provvedimenti da cui nel discorso al Senato ha finalmente preso le distanze.
Ma una riflessione a freddo è a questo punto necessaria: Conte è stato, è vero, un premier improvvisato, frutto più dell’incapacità di Salvini e Di Maio di accordarsi su chi dovesse andare a Palazzo Chigi che dei suoi meriti personali; ma forse proprio per questo da lui e non da altri è venuta la vera novità di questa crisi, la sua piena parlamentarizzazione.
La Costituzione non dice che a presiedere il Consiglio dei ministri debba essere un politico di mestiere, che abbia fatto carriera in un qualche apparato di partito, eppure è stato quasi sempre così. Le pochissime eccezioni (come Ciampi e Monti) riguardano personalità che avevano già ricoperto altissimi ruoli, in Banca d’Italia o nella Commissione europea.
Giuseppe Conte è la prima e unica anomalia: la prima volta nella storia della Repubblica in cui un comune cittadino, fino a ieri intento a fare il suo mestiere, per una singolare congiuntura politica si trova proiettato a capo del governo.
Senza aspettarselo, senza esservi veramente preparato, senza godere di una fama consolidata, di una fiducia previa. Questo è dunque l’enigma, ma questa è anche la soluzione: è il Conte cittadino “comune” che, dopo essersi anche troppe volte prestato a un gioco politico troppo più forte di lui, ha finalmente trovato in se stesso (e nella propria cultura giuridica) il coraggio della dignità, la forza del proprio ruolo istituzionale. Possiamo rimproverargli di non averlo fatto prima.
Ma dobbiamo essergli grati di averlo fatto adesso.
E dovremmo esser capaci di trarre la morale della favola, nel momento in cui si va a formare un nuovo governo.