“Il giovane Karl Marx”, coproduzione franco-belga-tedesca del volenteroso haitiano Raoul Peck (ex ministro della cultura nel suo paese): un compito che, nell’insieme, si può dire ben svolto.
Accurato, corretto, rigoroso perfino nella ricostruzione storica delle vicende politiche e umane dei due grandi rivoluzionari Karl Marx e Friedrich Engels nei primi anni della loro collaborazione (nel titolo – ma, per esser giusti, non nello svolgimento del film – si consuma l’ingiustizia reiterata del collocare Engels in posizione subalterna fra i due).
Dal punto di vista cinematografico: buona la recitazione come pure i costumi e le scene, onesti la fotografia e il montaggio… ma può bastare questo a fare un buon film?
Direi di no perché la vicenda si dipana ordinatamente senza mai dare “brividi” di sorta, con un ritmo più da fiction televisiva che da grande cinema.
Magari qualcuno che conosce un po’ quegli eventi per averli “frequentati” nella rimpianta gioventù, certo, se la può cavare e riesce in proprio a tappare i buchi narrativi ma i più che non ne sanno granché – temo – rischiano la noia, ed è un vero peccato perché quei due signori, e le loro faccende, erano quanto di meno noioso si possa immaginare.
Qui Marx – lui in particolare – a volte sembra un matto che non si capisce bene perché debba sempre avercela con tutti. Una rara volta che arriva una citazione “nel merito” relativa a una sua famosa polemica filosofica con Feuerbach… è ubriaco fradicio!
Arriva finalmente un guizzo emotivo a ridosso della conclusione, quando la voce fuori campo recita le prime righe del “Manifesto Comunista” su immagini cine-fotografiche piuttosto suggestive. Peccato che l’emozione si rompa bruscamente con l’arrivo dei titoli di coda con l’improbabilissima “Like a Rolling Stone” di Bob Dylan (brano, in sé, magnifico ma clamorosamente fuori posto!) a commento di un montaggio caleidoscopico di scene di repertorio, con tutto e il contrario di tutto, in stile sigla di documentario di History Channel; magari – se proprio Dylan doveva essere – “The Times They Are a-Changin’” sarebbe andata meglio… In conclusione, pur riconoscendo dei meriti all’onestà sostanziale dell’operazione, non ci si può che rammaricare per la grande occasione persa.
Roberto Savoca