Luciano Odorisio, Politica

Conte 2 – Ministri da evitare: Franceschini, Nannicini, Del Rio, Toninelli…

a cura di Vincenzo Iurillo per Il FQ, 30-8-19

Nel totoministri, almeno per il momento e a quanto risulta, per la prima volta non sembrano esserci ancora inquisiti o condannati. 

Circolano però nomi che, secondo il parere delle nostre firme, sarebbe meglio evitare quantomeno per una questione di opportunità. Se il prossimo governo dovrà essere nel segno della discontinuità e della “novità” di cui ha parlato il premier Giuseppe Conte, ecco una indicazione dei primi ministri che sarebbe meglio evitare di nominare: dall’ex ministro dem Dario Franceschini al senatore pd Tommaso Nannicini, passando per il renziano Graziano Delrio, il pentastellato ministro dei Trasporti Danilo Toninelli e il prefetto Mario Morcone.

DARIO FRANCESCHINI 

Ha dato lo stigma del renzismo al patrimonio culturale italiano 

Si sussurra che le castagne dal fuoco sul nome di Roberto Fico le abbia tolte a Di Maio lo stesso Zingaretti: perché il Pd sarebbe imploso intorno alla notoria ambizione di Dario Franceschini di fare il presidente della Camera, per poi essere, tra tre anni, l’ultimo presidente della Repubblica democristiano. 

Sia come sia, a Franceschini conviene star lontano da questo governo: essendo uno dei pochi veri politici su piazza (nel bene e nel male) non è un avvocato Conte qualunque, disposto a patrocinare alla mattina una causa e al pomeriggio quella opposta. Avendo marchiato a fuoco il patrimonio culturale della nazione con lo stigma del renzismo (controllo politico, valorizzazione selvaggia, musei come supermercati), Franceschini è un’icona troppo ingombrante per un governo di non belligeranza. 

Uno di quei nomi (come quello Di Maio, all’inverso) indigeribili per ciò che resta degli elettori grillini. E, francamente, non solo per loro. 

TOMASO MONTANARI

TOMMASO NANNICINI 

Nessuna vera discontinuità con uno dei registi del Jobs act

Il fatto che il premier incaricato abbia rimarcato la centralità dell’articolo 3 della Costituzione è un’occasione per dare discontinuità al futuro governo. Per questo se la scelta cadesse sul senatore Tommaso Nannicini non sarebbe adeguata. Non perché non sia competente. 

Anzi, sul piano del curriculum –Bocconi e Harvard – Nannicini ha le carte in regola. Ma non c’entra nulla con la discontinuità avendo soggiornato a Palazzo Chigi dal 2014 al 2018: piena cabina di regia del Jobs Act. 

Quest’anno è stato lui a incaricarsi di riscrivere la proposta del Pd sul salario minimo, affidando a una Commissione di rappresentanti dei sindacati e dei datori di lavoro, la decisione sull’importo. Dopo anni di politiche di ispirazione bocconiana, sarebbe forse il caso di cambiare registro. 

E il Pd il ricambio ce l’ha già in casa, anzi nella nuova segreteria di Nicola Zingaretti. 

È Giuseppe Provenzano, anch’egli economista, già vicepresidente dello Svimez, e che ritiene che la sinistra debba riconquistare la propria “anima”.

SALVATORE CANNAVÒ

DANIELE FRANCO 

Economia, l’alibi dei tecnici e il rischio della “rest aurazione” 

Il nascente governo giallo-rosa ha solo un modo per evitare di gonfiare la destra alla prossima tornata elettorale: una radicale discontinuità nelle politiche economiche. I nomi dei “tecnici” circolati in questi giorni non suggeriscono nessuna svolta alle porte. 

Daniele Franco (ex Ragioniere dello Stato) e Salvatore Rossi (ex dg di Bankitalia) appartengono a quella schiera di burocrati garanti dell’ortodossia di bilancio in salsa brussellese buona per rassicurare il Quirinale, meno per guidare presunti programmi espansivi. 

Si ripeterebbe poi lo stesso errore visto in questi anni, buon ultimo con Giovanni Tria: affidarsi a un tecnico gradito al Colle, salvo poi addossargli le colpe di sabotare i programmi dei partiti. 

Contro Franco i 5Stelle hanno battagliato per mesi sulle coperture durante la manovra, mentre Rossi è stato dg di Bankitalia nella stagione dei disastri bancari. Ogni scelta tecnica presuppone vincitori e vinti, serve un politico che se ne assuma la piena responsabilità. 

CARLO DI FOGGIA

DANILO TONINELLI 

Concessioni e grandi opere, l’errore da non ripetere più 

Danilo Toninelli al ministero delle Infrastrutture resterà negli annali pentastellati come simbolo degli errori da non ripetere. Quel ministero incarna temi chiave per il M5S e Di Maio aveva scelto un competente, il geologo Mauro Coltorti. 

Poi, cedendo alle ambizioni ministeriali dei suoi colonnelli e al diktat di Salvini (va bene uno vostro ma che non sia bravo), ha battezzato Toninelli. La miscela esplosiva di annunci continui e incompetenza è puntualmente esplosa. 

Impegnato a inseguire Salvini su migranti e Ong, ha lasciato gestire il ministero a un gruppetto di amici e burocrati che hanno più che altro tutelato gli interessi padroni da sempre a Porta Pia. 

Come dimostra la tragedia del ponte Morandi, con quotidiani annunci della revoca della concessione ai Benetton senza fare un solo atto di governo in quella direzione. 

Anche la battaglia sul Tav Torino-Lione è stata mirabilmente suicida, con la rinuncia a iniziative di governo sostanziose per dedicarsi, con risultati deludenti, allo sguaiato battibecco sui social network. 

GIORGIO MELETTI

GRAZIANO DEL RIO 

È stato un obbediente esecutore del partito delle autostrade 

Riportare Graziano Delrio al ministero delle Infrastrutture dopo la parentesi Toninelli: per Luigi Di Maio sarebbe difficile spiegarlo ai votanti di Rousseau. 

È vero che Toninelli ha deluso le attese, ma è anche vero che alle Infrastrutture i tre anni di Delrio hanno garantito la continuità con il sistema Lupi-Incalza, pur spazzato via dalle inchieste giudiziarie. 

Esauriti i suoi doveri ambientalisti andando in ufficio in bicicletta, Delrio è stato obbediente esecutore del partito delle autostrade, battendosi come un leone per la proroga delle concessioni dei Benetton e dei Gavio. 

Con qualche furbata, come l’analisi costi-benefici sulle grandi opere affidata al professor Marco Ponti, ma solo a parole, o lo strombazzato proposito di rivoluzionare il ministero con la rotazione degli incarichi, poi attuata come rotazione finta tra i soliti noti. 

Il 4 marzo 2018 la scandalosa gestione Delrio è stata uno dei propellenti del successo elettorale del M5S. Non sembra una bella idea premiarlo in nome della nuova amicizia con il Pd. 

GIO. MEL.

MARIO MORCONE 

Non andava bene (a Napoli) nel 2011, perché dovrebbe ora? 

N el 2011 un Pd in preda a pulsioni suicide lo candidò a sindaco di Napoli per mettere una pezza al disastro delle primarie annullate per i brogli. 

E ‘Morcone chi’ fu il tormentone di Dagospia per sottolinearne la scarsa fama in città. All’epoca Mario Morcone, prefetto esperto sui temi dell’immigrazione e probabile ministro dell’Interno del Conte 2, era direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati su nomina del governo Berlusconi, ed era indagato insieme a Gianni Letta in un’inchiesta sull’accoglienza dei rifugiati a Policoro. 

Fu poi archiviato, ma a prescindere dalla rilevanza penale, dalle carte emergeva che Morcone aveva ottimi rapporti con gli amici di Letta. “Sarebbe stato un candidato naturale, sì, ma per il Pdl”, scrivemmo sul Fatto. 

Lo capirono anche gli elettori, che lo bocciarono sonoramente e gli preferirono Luigi de Magistris. Più recentemente Morcone è comparso nelle carte di Mafia capitale. 

Odevaine, intercettato, gli attribuisce una raccomandazione per assumere la figlia del segretario laziale del Pd, Melilli. 

VINCENZO IURILLO

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