di Marco Travaglio 20 luglio 2019
Che Salvini non sia più lo stesso si vede a occhio nudo. L’altroieri il Grande Twittatore aveva aperto la giornata con uno stentoreo “traditori” ai 5Stelle, rei di aver votato la Von der Leyen perché nominasse commissario alla Concorrenza il leghista Giorgetti.
Poi, nel pomeriggio, aveva ringhiato: “Con Di Maio c’è una mancanza di fiducia personale, perché io mi sono fidato per mesi”. E aveva preso appuntamento con Mattarella.
Infine, in serata, la serenata sotto casa di Giggino: “Mi correggo, io in Luigi Di Maio ho avuto e ho fiducia, secondo me è una persona per bene”.
E la disdetta del rendez vous con Mattarella, peraltro già a nanna da ore. Ieri, dopo aver contestato i presunti “tre No” del M5S su giustizia, manovra economica e autonomie, ha chiesto la testa dei ministri Trenta (Difesa) e Toninelli (Trasporti e Infrastrutture), che non c’entrano una mazza con i tre presunti No.
Un delirio. Le ragioni dello stato confusionale sono cinque.
1) Il trionfo alle Europee ha caricato Salvini di responsabilità più grandi di lui in Italia, proprio alla vigilia di una legge di Bilancio difficilissima, mentre in Europa l’ha lasciato più isolato di prima, con Orbán che resta nel Ppe e vota disciplinatamente la Von der Leyen e la Lega all’opposizione schiacciata sulla Le Pen e gl’impresentabili nazi di Alternative für Deutschland.
2) Il 34% del 26 maggio, i sondaggi in crescita (ma fino a quando?) e l’avvicinarsi del redde rationem autunnale consiglierebbero il voto finché gli italiani ci cascano. Ma Conte lo mette nel sacco un giorno sì e l’altro pure.
E i 5Stelle non gli regalano pretesti abbastanza popolari per buttare all’aria il governo senza pagare pegno: l’autonomia differenziata non frega niente a nessuno, mentre piace a tutti la flat tax, sempreché riguardi il ceto medio e non i riccastri, ma su quella Di Maio non fa l’errore di opporsi, anzi dice sì, ma lo sfida a trovare i soldi.
3) Lo scandalo russo è difficile da comprendere, anche per lo stato comatoso dell’informazione, ma anche chi ne sa poco ne ricava una sgradevole sensazione di pericolosità (i russi non sono popolarissimi e ancor meno i rubli) e cialtroneria (gli emissari salvinisti a Mosca hanno facce a metà fra i film di Pierino e il Museo Lombroso): infatti Salvini cerca ogni giorno un diversivo per parlare d’altro, compreso il finto attentato ucraino, ma invano.
4) Le sole voci di una possibile maggioranza alternativa M5S-Pd, anche se molto improbabili, lo fanno letteralmente impazzire, abituato com’era a ricattare Di Maio col secondo forno di centrodestra, mentre l’alleato non aveva vie di fuga.
5) Giorgetti, lanciato verso l’Europa e impallinato in volo, non l’ha presa bene e medita financo di lasciare Palazzo Chigi.
Perdere l’unico leghista di governo serio, nonché garante del partito dei governatori nordisti già in subbuglio per l’autonomia, non è di buon auspicio, in una Lega molto meno monolitica e più fibrillante di un anno fa. Intanto la finestra del 20 luglio, ultima data utile per sciogliere le Camere, votare il 29 settembre e avere un governo pronto per la manovra, si sta chiudendo: dopodiché è tutto affidato al caso e gli imprevisti – carte, bobine, trojan e altre polpettine dalla Russia con amore – che Salvini non sa se sia meglio beccarsi da ministro in carica o da ex.
Non è questo lo scenario che sognava la sera dell’eurotripudio. Ma non tutto è perduto. C’è sempre chi, tra i suoi presunti avversari, lavora per lui.
Eurocrati. Nel breve volgere di 24 ore Monti, Von der Leyen e Merkel si sono scatenati sullo scandalo russo, dipingendolo come una grave deviazione della politica estera italiana dal fronte occidentale a quello orientale.
Invece è grave perché tre fedelissimi di Salvini hanno contrattato una tangente con tre o quattro fedelissimi di Putin, ma la politica estera dell’Italia non s’è mossa di un millimetro (anche perché il Cazzaro ha virato a U da Mosca a Washington).
Più gli eurocrati fanno simili sortite, più Salvini potrà svicolare dai fatti e buttarla in caciara con la teoria del complotto antisovranista.
Pd. È scientifico: appena Salvini è in difficoltà, arriva il Pd a salvarlo.
Zingaretti continua a parlare di Conte, Di Maio e Salvini come se fossero la stessa cosa.
Poi ci sono i renziani, vera costola della Lega: non contenti di avergli regalato un anno fa il palcoscenico del governo rifiutando il contratto con Di Maio, ora ci riprovano con la mozione di sfiducia a Salvini, affidata alle manine sante della Boschi: “Che deve fare ancora Salvini per essere sfiduciato?”.
La risposta è ovvia: deve fare come lei, che giurò in Parlamento di non essersi mai occupata di Etruria, poi si scoprì che non aveva fatto altro, ma non solo non fu sfiduciata: restò ministro, divenne sottosegretario alla Presidenza con Gentiloni e fu paracadutata in un collegio blindato in Alto Adige.
La mozione anti-Salvini in realtà è pro: ricompatterà i giallo-verdi, mai così divisi; garantirà ai renziani le loro poltrone senza rischi di elezioni; e bloccherà sul nascere le avance di Franceschini, Sassoli & C. ai 5Stelle che tanto turbano Salvini.
Qui non basta ringraziare con qualche telefonatina furtiva: qui ci vuole una tessera della Lega a Renzi&Boschi, ad honorem.
Ong. La ferale notizia che la carissima nemica Carola è ripartita per la Germania prima che Salvini riuscisse a espellerla l’ha gettato nel più cupo sconforto.
Anche perché, a parte qualche barchino ogni tanto, l’invasione africana tarda ad arrivare.
Urge un’Ong prêt-à- porter che prelevi centinaia di migranti in acque libiche e faccia rotta su Lampedusa, insultandolo via radio e violando tutti i divieti, possibilmente con Delrio, Faraone e Fratoianni a babordo.
Gli amici, del resto, si vedono nel momento del bisogno.