editoriale di Marco Travaglio, Il FQ, 4-8-19
Mi scuso con i lettori per la nostra scelta eccentrica di aprire anche ieri la prima pagina con una notizia, anziché con l’ultima minchiata espettorata da Salvini spiaggiato con la bavetta agli angoli della bocca, l’ascella pezzata e la panza di fuori sul bagnasciuga del Papeete Beach. Noi, com’è noto, siamo strani e lo facciamo strano, il giornalismo: cioè con i fatti anziché con le parole.
Certo, ci fa ribrezzo un vicepremier nonché ministro dell’Interno che insulta i giornalisti che gli fanno le pulci e dà della “zingaraccia” a una rom che gli ha augurato un proiettile in capo.
Ne preferiremmo uno che: non usi i poliziotti per gli svaghi del pupo e le minacce a cronisti e contestatori; risponda anche alle domande che non gli piacciono; se una persona lo minaccia di morte, la quereli e, se proprio vuole dirle qualcosa, non usi riferimenti spregiativi alla sua etnia, ma aggettivi più appropriati e universali. Tipo “stronza”.
Dopodichè, appena insigni colleghi si stracciano le vesti per le minacce “mai viste” alla “libera stampa” (mai vista pure quella), capiamo subito perchè un simile cazzaro veleggi nei sondaggi verso il 40%: perchè avevano fatto ben di peggio altri due cazzari prima di lui, B. e Renzi.
Solo che ai tempi di B. era come oggi: si indignavano soltanto quelli di sinistra. E ai tempi di Renzi non si indignava nessuno, perché destra, centro e sinistra erano sdraiati ai suoi piedi (lo ricorda Antonio Padellaro, che l’altra sera in tv ha osato rammentare le intemerate del bulletto ai pochi che osavano contestarlo, e s’è subito beccato una minaccia di querela).
Ormai Salvini conosce bene i suoi polli, e li usa a suo piacimento sparandone una al giorno, nella certezza che l’indomani finirà su tutte le prime pagine e il giorno appresso tutti lo intervisteranno per sapere se sia pentito della vaccata del giorno prima.
Sempre meglio che lavorare, attività ormai vivamente sconsigliata ai politici di successo: infatti, nel governo giallo-verde, chi lavora perde voti, punti e copertine, mentre chi cazzeggia stravince.
Ma noi siamo strani e, anziché inseguire Salvini col suo Trota sull’acquascooter, preferiamo inseguirlo sui fatti. Tipo quello che abbiamo scoperto ieri a proposito del Tav Torino-Lione.
Che, per inciso, non è un Tav: dagli anni 90 il treno ad alta velocità per i passeggeri è stato riconvertito, per mancanza di passeggeri, in un treno ad alta capacità per le merci, peraltro anch’esse scarsine.
E non è neanche un Torino-Lione, visto che non è previsto alcun collegamento fra le due uscite del buco da 57,5 km. nelle Alpi, quelle di Bussoleno e di Saint Jean de Maurienne, e rispettivamente Torino e Lione.
Ma questo era già noto, almeno a chi legge il Fatto. La novità è che il non Tav non Torino-Lione costerà all’Italia circa 3 miliardi in più di quel che ci avevano raccontato.
Cosa che, se l’avessero saputa i tecnici incaricati dal Ministero dei Trasporti dell’analisi costi-benefici sull’opera, avrebbe portato il loro esito negativo non più a 7 miliardi, ma a 10.
E, calcolando solo i costi per l’Italia, escludendo quelli per Francia e Ue, non più a 3, ma a 6 miliardi. Cioè: se l’avesse saputo il premier Conte, quando ha annunciato che il Tav si deve fare, salvo un voto del Parlamento italiano che disdetti unilateralmente il trattato italo-francese, non si sarebbe azzardato a dire che ormai fermare le gare di appalto costerebbe più che vararli alla luce di un presunto cofinanziamento europeo al tratto ferroviario italiano “che costa 1,9 miliardi”.
Vediamo perché. Ancora l’altro giorno l’ex ministro dei Trasporti Pd Graziano Delrio, che è un po’ il Lunardi di Renzi, raccontava a Repubblica che “l’opera, così come finanziata dai governi di centrosinistra, ha visto una forte riduzione dei costi che sono passati nella tratta in Val di Susa da 4 miliardi (in realtà 4,6, ndr) a 1,9.
Quindi abbiamo fatto quello che era utile per evitare sprechi, utilizzando nel progetto in gran parte la linea storica, non come volevano Berlusconi e la Lega”. Peccato che sia falso. Al Cipe, cioè al Comitato interministeriale programmazione economica, del project review di Delrio (governo Gentiloni) esiste solo un’ “informativa”: un foglio di carta, mai dettagliato né approvato né deliberato come progetto definitivo.
Un pour parler. Una supercazzola.
Dunque, per il Cipe, cioè per il governo, la tratta italiana di collegamento al tunnel di base resta quella vecchia di B.&Lega, col potenziamento della Bussoleno – Avigliana – Orbassano e la Gronda di Settimo Torinese che bypasserebbe il capoluogo e confluirebbe sulla linea Tav Torino-Milano.
Costo: 4,6 miliardi: quasi 3 in più di quel che si pensava dando per fatto il progetto “low cost!” di Delrio, che tagliava la Gronda fermando i lavori a Orbassano.
Non solo, ma risultano stanziati solo 146 milioni: il 3,1% del totale. Ora come farà il governo ad autorizzare Telt, la stazione appaltante italo-francese, a lanciare i bandi di gara senza soldi e con la prospettiva di dover spendere 3 miliardi in più del previsto? Boh.
E su cosa voteranno mercoledì 7 al Senato i partiti pro e anti Tav? Ri-boh.
Si attendono lumi dal ministro competente (si fa per dire) Toninelli, da Conte, ma soprattutto dagli ultimi convertiti al dogma dell’Immacolata Costruzione: i leghisti. Siccome già faticano a indicare le coperture per la Flat Tax, che richiederebbe 15 miliardi sull’unghia in aggiunta ai 23 necessari a scongiurare l’aumento dell’Iva, li vorremmo tanto vedere alle prese con la ricerca di altri 4,5 miliardi (4,6 meno i 146 milioni già stanziati) per la linea nazionale del Tav.
Che dice il Salvini spiaggiato? Rinuncia a un’opera inutile e dannosa che, ancor prima di partire con 30 anni di ritardo, si sta già rivelando un pozzo senza fondo?
Oppure taglia la Flat Tax da 15 a 10 miliardi?
Nel caso, potrebbe chiamarla Flat Tav.
E vaiiii