Chissà se le anime morte del Pd e di quel che resta della sinistra hanno letto il sondaggio di Nando Pagnoncelli sul Corriere di ieri: per la prima volta da 25 anni, la destra si avvicina al 50% e il centrosinistra non arriva al 20.
Cioè: se si votasse domani, avremmo un bel governo Salvisconi, con Salvini premier e B. ministro, magari alla Giustizia.
Casomai avessero qualche idea, i sette nani candidati alle primarie dem potrebbero dircela ora, visto che hanno astutamente fissato il congresso al 3 marzo (tanto c’è tempo, no?).
Ma il sondaggio dice anche alte cose interessanti. Anzitutto che oggi risponde ai sondaggi un campione di italiani percentualmente molto inferiore a quello che ha votato il 4 marzo: come sempre avviene lontano dalle scadenze elettorali.
Oltre un elettore su tre (il 36%) non risponde, o perché si asterrebbe ancora o perché è deluso o indeciso.
Ben 3,2 milioni di votanti alle politiche hanno perso fiducia e non sanno se o per chi tornerebbero a votare. E questo fenomeno investe molto più gli elettori dei 5Stelle che quelli della Lega.
Che è meno colpita, perché è un partito monolitico-leninista, verticale e verticistico, senza mai l’ombra di un dissenso interno, con un leader forte e incontrastato, una classe dirigente collaudata in 30 anni di vita e un elettorato più omogeneo, più fideistico e meno esigente.
Il M5S è l’opposto: un movimento orizzontale e trasversale, senza un capo assoluto (Di Maio alla prossima tornata sarà scaduto), giovanissimo, con esili radici sul territorio e una classe dirigente raccogliticcia (vedi gli ultimi sconcertanti casi di Avellino e Corleone), molto diviso e vociante all’inter – no, con elettori eterogenei facili da tenere uniti stando all’opposizione, ma non al governo.
Salvini s’è mangiato metà di FI e di FdI, ha rubato gli elettori di destra al M5S e recuperato un pezzo di astenuti ansiosi di saltare sul carro del vincitore.
Di Maio ha ceduto un 5% alla Lega senza recuperare nulla da sinistra.
Ma il crescente serbatoio di incerti indica che molti potrebbero tornare a votare il M5S se e quando diventassero realtà alcuni suoi cavalli di battaglia: quelli che cambiano la vita alle persone, dal reddito di cittadinanza alle politiche ambientaliste. Infatti nemmeno un voto perso dai grillini si sposta a sinistra: il Pd è 2 punti sotto il minimo storico del 4 marzo e l’area della fu Leu è estinta, in attesa di un progetto davvero progressista (tipo Mélenchon, Corbyn o Verdi tedeschi). A queste analisi di Pagnoncelli ci permettiamo di aggiungerne un paio.
1) La grande stampa è tutta anti Di Maio e pro Salvini. Il bottino leghista di leggi è quasi zero.
E il presunto Capitano è reduce da una settimana di scoppole (l’A n t i c o r ru z i o n e , con manette agli evasori e blocca-prescrizione, è passata alla Camera con l’impegno di cancellare in Senato la porcata sul peculato; il condono fiscale è scomparso; la battaglia pro inceneritori è finita in una Caporetto; e nelle nuove nomine Rai non c’è Casimiro Lieto caro alla Isoardi).
Eppure i media continuano a raccontare un Salvini che vince sempre e fa tutto lui.
L’Ancien Régime, con le sue trombette a mezzo stampa, punta tutto su di lui per conservare il conservabile. I 5Stelle, anche se sono i soli a sfornare leggi, passano per eterni sconfitti succubi dell’alleato
Attaccati dalla stampa di destra (ovviamente salviniana) e da quella di sinistra (che gonfia il sacco vuoto leghista nell’illusione di spaventare gli elettori progressisti e ricondurli all’ovile Pd).
2) Il M5S, proprio perché legifera e si schiera di più, scontenta più elettori. Il reddito di cittadinanza piace a chi spera di riceverlo, ma non a chi dovrà finanziarlo. Le manette agli evasori spaventano chi evade, cioè 10 milioni di italiani.
Il blocco della prescrizione, in un Paese che ha visto estinguersi 1,5 milioni di processi in 10 anni, terrorizza centinaia di migliaia di colpevoli già prescritti o aspiranti tali. Il no al Tav Torino-Lione piace alla maggioranza dei valsusini, ma non degli italiani, così disinformati da scambiare un inutile treno merci per uno sfavillante Frecciarossa per passeggeri.
Ogni cambiamento è divisivo: chi lo tenta o lo attua perde consensi, mentre chi – come Salvini – non fa nulla ma promette tutto guadagna consensi, almeno finché la bolla degli annunci non scoppierà all’atterraggio sulla terraferma.
Perciò i 5Stelle dovrebbero evitare il panico da sondaggio.
La crescita di Salvini non è irreversibile perché riguarda una platea molto più ristretta dei votanti del 4 marzo.
E c’è un altro dato interessante, anzi – a leggere i giornaloni – inspiegabile: l’altissimo consenso per Giuseppe Conte, che piace al 62% degli intervistati (Salvini al 60% e Di Maio al 47%).
Da sei mesi il premier viene preso in giro come un ameboide prestanome dei due vice: eppure la gente si fida più di lui che del Politico dell’Anno.
Perché?
Perché l’han capito tutti che gli attacchi che subiva prim’ ancora di entrare a Palazzo Chigi (curriculum, carriera universitaria, gossip) erano frutto di prevenzione e pregiudizio, vista l’im – barazzante piaggeria che aveva leccato anche i suoi più indecenti predecessori.
Ma soprattutto perché Conte ha sfoderato uno stile e un linguaggio composti, istituzionali e affidabili che fanno da contrappunto alle sgangheratezze leghiste e alle gaffe grilline. Inseguire Salvini sull’unico terreno in cui è imbattibile – quello dei decibel – è inutile.
Se Di Maio parlasse di meno per litigare con questo e quello e di più per spiegare le misure che sta realizzando, darebbe agli elettori incerti e disorientati ciò che cercano, ma trovano solo in Conte: la pacatezza e la concretezza dei fatti. Il cambiamento, nella morta gora italiana, è già terrorizzante di per sé.
Per farlo digerire al Paese del Gattopardo serve la persuasione.
Non il rutto.