Editoriale di Marco Travaglio per Il FQ, 25-6-19
Molti ci chiedono un’opinione sulla pubblica lite fra Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Per quel che vale, è questa: hanno ragione e torto tutti e due. Dipende dal punto di vista.
Di Maio e Di Battista sono due persone perbene che credono in quello che fanno (giusto o sbagliato che sia), in un mondo politico infestato da ipocriti e malfattori.
Di Maio è il vicepresidente del Consiglio, il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, nonché il capo politico dei 5Stelle, eletto nell’autunno 2017 dagli iscritti per cinque anni e appena riconfermato: e, a 32 anni, sta imparando rapidamente i quattro nuovi mestieri.
Di Battista è un privato cittadino, ex parlamentare per una legislatura, che ha deciso di prendersi una pausa per dedicarsi alla famiglia e alla passione dei reportage dal Terzo mondo, seguitando a fare politica dall’esterno, anche col libro Politicamente scorretto.
Di Maio è uno dei due politici più potenti del momento. E deve confrontarsi ogni giorno con i doveri istituzionali, con gli equilibri del Movimento e con un alleato abile, debordante e scorretto – la Lega di Salvini – che in quest’anno di coabitazione forzata ha in parte cannibalizzato e in parte sputtanato i 5Stelle.
Eppure, al prezzo di molti errori, defatiganti mediazioni fin sull’orlo della rottura e compromessi al ribasso come il salva-Salvini dal processo Diciotti, è riuscito con gli altri ministri a portare a casa una serie di misure che appartengono al Dna stellato, ma sono del tutto estranei a quello leghista:
il dl Dignità, l’Anticorruzione con blocca-prescrizione, gli stop al bavaglio alle intercettazioni e alla svuotacarceri, il reddito di cittadinanza, l’abolizione dei vitalizi, il taglio delle pensioni d’oro, la cancellazione dell’immunità ai vertici Ilva, il congelamento provvisorio del Tav Torino-Lione, le riforme costituzionali (ancora in itinere) sul taglio di un terzo dei parlamentari, il referendum propositivo e la riduzione del quorum.
Ha bloccato i propositi leghisti su mega-condoni fiscali e depenalizzazioni dell’abuso d’ufficio e del peculato, sulle trivelle petrolifere e gli inceneritori, ha stoppato una prima versione devastante delle autonomie regionali differenziate, si batte per il salario minimo e i tagli allo stipendio dei parlamentari.
Ha dovuto rinfoderare le promesse irrealizzabili su Tap e Ilva, pagandone duramente le conseguenze.
E ancora nulla si sa di altre promesse: manette agli evasori, diritti dei rider, no definitivo al Tav, riforma della Rai, conflitto d’interessi, revoca della concessione ad Autostrade.
Ora, non per il destino cinico e baro ma per sua scelta, Di Maio porta sulle spalle un macigno di responsabilità e problemi che schiaccerebbe una mandria di bufali: specialmente dopo la disfatta alle Europee, con 6 milioni di voti persi su 11 in un anno.
Di Battista, per sua scelta, non ha responsabilità. E, dall’esterno, tende a vedere il bicchiere mezzo vuoto, mentre chi l’ha riempito a metà lo vede mezzo pieno.
La sua posizione è molto più comoda di chi sta al vertice del M5S e del governo. E, visto il peso politico che s’è conquistato in questi anni a prescindere dalle cariche (che non ha), ogni sua critica, anche costruttiva, suona come una sconfessione dell’attuale gruppo dirigente. Viene letta come un’autocandidatura a prenderne il posto.
E Di Maio la ritiene “destabilizzante” per il Movimento e il governo, proprio mentre chi ci sta dentro tenta di salvare non solo l’esecutivo, ma anche i 5Stelle dalle elezioni anticipate.
Che porterebbero Salvini a Palazzo Chigi e il M5S al rischio di estinzione o comunque di irrilevanza.
Di Battista ribatte che:
la leadership di Di Maio non è in discussione;
chi destabilizza governo e M5S non è lui, ma Salvini con le continue invasioni di campo nei ministeri pentastellati;
il governo deve durare, ma con pari dignità dei due contraenti; il M5S deve rispondere colpo su colpo alle provocazioni salviniane e pretendere il rispetto degli impegni presi, dal no definitivo al Tav al ritiro delle truppe dall’Afghanistan alla revoca della concessione ad Autostrade;
le sue uscite da battitore libero possono rianimare la parte della base più scontenta, cioè i 4,5 milioni di ex elettori che alle Europee si sono astenuti e attendono segnali più “radicali”;
la sua apertura al terzo mandato in caso di voto subito libera parlamentari M5S, allarmati dalla non-rielezione, dal ricatto leghista (anche se chi è al primo mandato rischia di non essere rieletto, se il M5S ricandiderà chi è al secondo e non ripeterà l’exploit del 2018).
Ma ormai il problema va ben oltre quel che ciascuno dei due dice.
E anche delle letture ora scorrette, ora malevoli, ora infondate dei media che – com’è naturale – sguazzano nei dualismi politici e li alimentano.
Soprattutto se il dualismo scoppia in un Movimento finora monolitico, che espelleva o emarginava i dissenzienti.
Ma i 5Stelle sono molto cambiati nell’ultimo biennio, fino a governare con chi avevano sempre riempito di insulti (ampiamente ricambiati). Dunque non c’è nulla di male se due leader parlano anche pubblicamente lingue diverse: la democrazia e il pluralismo sono conquiste, non peccati mortali.
L’importante è che si abituino anche loro all’idea della dialettica interna.
Ed evitino il vizio che attanaglia tutti i politici quando si barricano con i loro staff di yesmen e iniziano a vedere nemici e complotti dappertutto.
L’unica via d’uscita è ascoltarsi, valutare ciascuno il punto di vista dell’altro e le conseguenze delle proprie parole.
Chiarirsi a quattr’occhi le idee, senza per questo cambiarle o tornare a lavare i panni sporchi in famiglia,aumma aumma.
Soprattutto se, fondamentalmente, si vuole la stessa cosa.