“LA MOGLIE DEL CAPITANO”: Luciano Odorisio colpisce ancora.
Di Roberto Savoca
Dopo “Non invecchieremo mai”, Luciano Odorisio ci regala, quasi a voler dare dimostrazione della veridicità di quel titolo, un nuovo godevolissimo libro: “La Moglie del Capitano” (Ed. Il Viandante, collana Rumore di carta, 279 p., prefazione di Antonio Monda, € 16,50).
Ancora una raccolta di racconti – l’ultimo dei quali, il più lungo, dà il titolo al volume – che corrono veloci, sempre in acrobatico equilibrio tra frammenti di autobiografia e flusso di coscienza.
Come in omaggio all’Hemingway pubblicato postumo di “Isole nella corrente”, si apprezza, all’inizio, il brusco e disinvolto passaggio dalla terza alla prima persona, che, se fosse cinema, sarebbe il passaggio dalla voce narrante impersonale al dialogo diretto e recitato, dal totale descrittivo e introduttivo ai piani ravvicinati.
Al cinema, del resto, Odorisio si richiama più e più volte – diciamo pure: costantemente – nel corso della narrazione, con citazioni e riferimenti d’ogni tipo ai grandi film di Hollywood come ai B-movie casarecci e persino soprannominando certi personaggi con i nomi di famosi attori e attrici. Così, non ha un nome, la moglie del capitano: lei è Hedy, nel senso di Lamarr.
Il cinema, d’altra parte, non può non esserci nei racconti attinti da un’autobiografia, ancorché non sistematica, di quel Luciano Odorisio Leone d’Oro a Venezia nel 1982 con “Sciopèn”, miglior opera prima, cui segue una carriera onoratissima da regista e sceneggiatore di decine di opere per il cinema e la tv.
Tuttavia, questo “La Moglie del Capitano”, come già il precedente “Non invecchieremo mai”, non può considerarsi l’episodico cimento del regista che scrive un libro ma, a tutti gli effetti, il lavoro di uno scrittore fatto e finito. Benché tra il mestiere di scrittore e quello di sceneggiatore ci siano indiscutibili affinità, non si può negare che ci siano anche importanti differenze: Odorisio lo sa bene e dimostra di saper sfruttare appieno la libertà creativa nella narrazione, senza i vincoli tecnici della trasposizione cinematografica.
Qualche considerazione particolare va dedicata all’ambientazione, nella provincia abruzzese, della quale l’autore ci fa vivere, in un climax solo in apparenza disordinato, il comune e il personale sentire, giù giù scavando fino agli odori e ai sapori. C’è una sorta di “realismo magico” che pervade a volte i racconti, generato forse dalle nebbie del ricordo ma di sicuro effetto.
È la stessa provincia di “Sciopèn”, popolata di maschere comiche e tragiche, anche contemporaneamente in certi casi, alcune delle quali già comparse nel libro precedente: una corte dei miracoli di ragazzini, che via via crescono, ossessionati dal sesso più sognato che praticato.
E poi, fondamentale, la figura del padre amatissimo; tra le pagine più intense, c’è quell’addio alla stazione e quel raro e distillato consiglio paterno: “Non tornare”.
Il padre violinista è l’artista fragile che, come tale, andrebbe protetto sotto una campana di vetro e che deve invece subire le scudisciate del cinismo e dell’ignoranza, i mali assoluti che generano un odio funesto nell’autore e ne determinano la fuga verso la metropoli; un odio sincero per la pochezza degli stolti che si diluisce però, altrettanto sinceramente, nella nostalgia e nel rimpianto.
Roberto Savoca