di Daniela Ranieri per Il FQ, 10-10-19
A un certo punto della sera di martedì, mentre traeva fomento dalla terza ovazione del pubblico dell’omonima trasmissione, Salvini è sembrato entrare in un evidente stato di alterazione psico-fisica – Salvini che, è bene ricordarlo, esiste e gode di tanto consenso perché per anni è stato insufflato di steroidi proprio dai talk show, felicissimi di ridursi a suoi casini da caccia.
DA FLORIS c’era un’infilata di giornalisti pronti a metterlo in difficoltà sui temi a lui meno cari, come il Russiagate.
“Domani gli italiani si svegliano con la paura di un’invasione della Russia o il problema è che i figli non trovano lavoro?”, ha risposto, come se fossero due alternative logiche.
La tattica di bassa semiologia di Salvini è nota: agli italiani non interessa X (dove X sono magagne della Lega presentate come questioni lunari e pedantesche) ma le tasse/il lavoro/le pensioni/il prezzo del latte/i neri stupratori-ladri-spacciatori, con l’aggravante inedita, l’altra sera, del caso di un bambino disabile di Narni a cui Salvini ha promesso di mandare gli infermieri a casa (lui spiccia micro-questioni che il governo delle élite non ha la volontà di risolvere).
In questo modo, Salvini fa credere che tutto ciò che non è X sia sottovalutato da chiunque non sia Salvini.
A giudicare dalla claque, che escludiamo si sia portato dietro dal Papeete e dunque era autenticamente incantata dalla sua performance cardiovascolare, si direbbe che la tattica funziona ancora. Il turpiloquio lo galvanizza: “Non ho preso un rublo. Dove cazzo vuole cha abbia messo 60 milioni di dollari? Ma secondo lei, io sarei qua a parlare con lei se avessi 60 milioni di dollari? O sarei ai Caraibi?”.
Salvini immagina l’italiano-tipo del tutto incapace di capire la differenza tra l’arricchimento di un politico corrotto e un sistema di corruzione internazionale che a riguarderebbe, se provato, vicendevoli favori su campagne elettorali, compravendita di petrolio e influenze varie.
L’arena di DiMartedì ha apprezzato che Salvini sorvolasse sulla noiosa questione del “complotto” ai suoi danni e si riarrogasse il diritto di riferire del suo comportamento solo al pubblico televisivo: “È un anno che andate avanti con questo pippone sulla Russia, gli italiani vogliono sentir parlare di taglio delle tasse e problemi della vita reale!”; ma poi non sa parlare che dell’Umbria, dove è in corso la campagna elettorale.
Il trucco è lo stesso di sempre: se l’interlocutore fa una premessa, Salvini concentra l’attenzione sulla premessa, impedendogli di continuare il discorso.
Così è riuscito per anni a giocare a flipper coi giornalisti, trattati come cani lanciati a inseguire un bastone.
Se come l’altra sera qualcuno premette: “I bambini muoiono in mare”, Salvini si aggancia: “E che è, colpa mia?”, il che obbliga le persone a pensare di chi sia la colpa se i bambini muoiono in mare (per quelle sintonizzate sul suo bias di conferma, delle madri che li mettono sui gommoni);
e da lì scatena il domino della passivo-aggressività: “È sempre colpa di Salvini! Manca che la Raggi dica che non riesce a svuotare i cassonetti per causa mia!”.
Il pubblico urla, applaude, drogato dalla vertigine dello spostamento, dimentico della questione-matrice.
FORSE non si aspettava nemmeno lui una platea così calda.
Come un politico così modesto e pedestre riesca ancora a incanalare i sentimenti collettivi lo spiega la psicologia delle folle di Gustave Le Bon: “L’autoritarismo e l’intolleranza sono per le folle sentimenti che esse sostengono e praticano con estrema facilità. Le folle rispettano la forza e sono mediocremente impressionate dalla bontà, che al più è valutata come una forma di debolezza. Se le masse volentieri calpestano il despota detronizzato, è perché, avendo quegli perduto la sua forza, rientra nella categoria dei deboli che, non temuti, meritano disprezzo”.
Ciò significa che Salvini, se non piagnucola, non è affatto finito.