di Luca De Carolis per Il FQ, 02-11-19
Fosse dipeso da loro, altro che governo giallorosso. Avessero deciso in autonomia, senza Beppe Grillo, Matteo Renzi e istituzioni varie a indirizzare la rotta, altro che matrimonio.
Ma il disastro umbro ha sommerso convenevoli e buone maniere, così ora Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sentono liberi di (ri)dirsi a vicenda quanto non si piacciono.
Bel problema, visto che dovrebbero governare assieme per un bel po’ e magari discutere di intese nelle regioni. Però il capo politico dei 5Stelle di accordarsi nei territori non vuole saperne, e ieri lo ha ricordato, bruscamente: “Sento tanto parlare di coalizioni, accordi, patti o presunti tali, ma non importa nulla di parlarne, e non importa neppure agli italiani”.
UN RINGHIO anche per Pier Luigi Bersani, che sul Corriere della Sera l’aveva invitato a sedersi al tavolo con i dem per l’Em ia-Romagna. Ma Di Maio punta su altro, a patti con liste civiche.
Tanto che ha dato mandato ai vari capigruppo regionali di organizzare la campagna elettorale, assieme a un parlamentare per Regione, e soprattutto di cercare prima possibile referenti di associazioni con cui trattare. Vietate le trattative con il Pd.
Invece il segretario dem Zingaretti ufficialmente gli accordi locali li cerca ancora. Però ieri mattina già sul Sole 24 Ore avvertiva: “Non si può governare insieme da avversari. O c’è una comune tensione, un comune sentire, oppure non ha senso andare avanti”.
E in giornata ci mette il carico: “Toc toc, c’è qualche altro leader che sostiene e che ha voluto questo governo, che lo difende dalle bugie e dagli attacchi della destra?”.
E ovviamente il leader tirato in ballo è Di Maio, mentre il tema caldo sono i decreti sicurezza, che per i dem vanno ampiamente cambiati e per il ministro degli Esteri al massimo ritoccati.
Questa l’aria che tira, tra i due vertici giallorossi, che però qualcosa in comune ce l’hanno, e non è solo la con vivenza forzata in maggioranza.
Perché sia Zingaretti sia Di Maio hanno l’esigenza di cambiare moltissimo, nei rispettivi partiti.
E sul come giocano a inseguirsi, quasi a copiarsi: per paradosso, o forse no.
Zingaretti medita addirittura di cambiare nome al Pd. Di sicuro vuole aprire alla consultazione on line degli iscritti su temi e decisioni. Insomma il segretario vuole una sorta di piattaforma Rousseau, come quella dei 5Stelle.
Dall’altra parte il Di Maio che in Umbria ha rimediato un ferale 7,4 per cento insiste sulla riorganizzazione, cioè su un team nazionale di 12 responsabili tematici, più sei facilitatori e vari referenti regionali.
Decine di nuovi ruoli, per dare al Movimento una struttura, qualcosa nello stile dei partiti tradizionali, Pd compreso. Ma parecchi malpancisti a 5Stelle, e anche diversi big, vogliono di più: una segreteria politica e visto che ci sono anche un congresso.
“Di Maio deve dare ruoli politici, non tematici” è la sintesi. E non è la ricetta del capo politico, che giovedì ai senatori ha detto quello che volevano sentirsi dire: “Dobbiamo rifondarci, trovare nuove parole d’ordine, ridarci un’identità”.
ANCHE PER QUESTO ha promesso per la primavera gli Stati generali, che fanno un po’ rima con congresso. “Potremmo prendere esempio dal modello di organizzazione dei Verdi, a metà tra partito e movimento” ha sostenuto con i suoi in queste ore.
Ma di segreterie politiche non ha alcuna voglia.
Spera di compensare riunendo ogni tanto un “caminetto” composto da 10-12 big, e anche questa era una vecchia usanza del Pd. Lunedì il capo politico li ha rivisti (ma qualcuno, come Nicola Morra, ha marcato visita), promettendo che nei prossimi mesi le riunioni saranno più frequenti.
Nell’attesa i maggiorenti lo hanno più o meno tutti invitato a non dare per chiusa ogni opzione con il Pd, ad essere più sfumato, “altrimenti sembriamo schizofrenici”. E poi alcuni big sono davvero convinti che ci si debba provare.
La pensa così il veterano Max Bugani, attuale capo staff della sindaca Virginia Raggi, e di certo non sprangherebbe la porta neppure il presidente della Camera Roberto Fico.
Ma Di Maio ha scelto il no, totale, “e su questo è totalmente allineato con Alessandro Di Battista e gran parte della base” rivendicano i suoi. Difficile fargli cambiare idea.
Anche per il capo delegazione del Pd Dario Franceschini, il primo, testardo sostenitore di matrimoni giallorossi anche nelle Regioni.
Un’eresia invece per Matteo Orfini (caustico in questi giorni: “Siamo un’altra cosa dal M5S, inutile negarlo”) e il capogruppo in Senato Andrea Marcucci.
Ma è tutto il rapporto tra M5S e Pd che traballa.
Con Di Maio che ora chiede per gennaio “la legge sull’acqua pubblica”.
E subito dopo “dovremo iniziare con quella sul conflitto d’interessi ”, fa sapere.
Lui che “l’esperimento”umbro lo ha già archiviato, come il fallimento perfetto per non ritentare.