di Aldo Cazzullo per il Corriere della sera
«Inesorabile, implacabile, ogni anno arriva l’ appuntamento con la serata della consegna degli Oscar. L’ attendo con ansia quando vedo che la data si avvicina. So già che cosa mi riserva. Tutti i media progressisti – americani, mondiali – quella sera danno il peggio di sé. Un’ orgia di banalità politically correct , una discesa verso gli inferi dell’ ipocrisia. Le star di Hollywood lo sanno benissimo, hanno imparato a manipolare la dabbenaggine dei commentatori.
Ogni celebrity ha i suoi addetti alle relazioni esterne, che ne curano anche l’ immagine “valoriale”; la passerella degli Oscar viene usata per mandare messaggi che provocano l’ orgasmo dei media progressisti. Di volta in volta, l’ attrice o l’ attore verranno edotti dagli esperti di comunicazione, istruiti in anticipo. Bisogna sapere se quell’ anno va più di moda il cambiamento climatico o il razzismo, gli immigrati o le molestie sessuali. La star deve avere bell’ e pronto il suo discorsetto sugli orsi polari, o le violenze della polizia americana contro i neri, o gli abusi sulle donne (meglio se attrici), o il dramma dei morti annegati nel Mediterraneo…» .
È un Federico Rampini che non ti aspetti.
Di solito, leggendo i suoi libri, si impara sempre qualcosa. È così anche questa volta (molto belle, ad esempio, le immagini su un Paese da oltre cento milioni di abitanti di cui non si parla mai, l’ Etiopia).
Ma La notte della sinistra (Mondadori) è anche un’ invettiva. Con punte di amara ironia; come il passaggio sugli orsi polari interscambiabili con i bambini annegati, che torna in altre pagine del libro, come memento della spregiudicatezza delle star progressiste di Hollywood (e dei loro uffici stampa).
È un libro di grande coraggio intellettuale. Qualcuno, in buona o in malafede, l’ ha frainteso – o ha finto di fraintenderlo – e ha concluso: Rampini è diventato di destra. È vero il contrario. L’ autore non rinnega la militanza giovanile, e neanche lo sguardo con cui ha seguito le vicende degli ultimi decenni, nei molti luoghi dove la vita e il mestiere l’ hanno portato: la Bruxelles dell’ Europa nascente, la Parigi di Mitterrand, la Milano di Mani Pulite, la San Francisco della new economy , la Pechino e la New Delhi del boom di Cindia, la New York di Obama e ora di Trump.
Ma proprio per questo Rampini è giustamente indignato per quello che la sinistra è diventata. E per i suoi errori, che l’ hanno portata a perdere il popolo. Pendere dalle labbra dei miliardari dello spettacolo – e dai padroni della rete che accumulano denaro e potere senza neppure pagare le tasse – è solo uno degli abbagli gauchisti che hanno spalancato le porte alla Brexit, a Trump, ai fenomeni che l’ autore cerca di capire, rifiutando di liquidarli frettolosamente come «fascismo alle porte» e «peste nera». Perché a eleggere Trump sono stati gli operai bianchi del Michigan, della Pennsylvania, dell’ Ohio che per due volte avevano eletto il primo presidente afroamericano della storia. «Razzisti anche loro?» si chiede Rampini.
Demonizzare l’ avversario, ecco un altro errore. Tutto è colpa di Trump, pure il rischio dell’ estinzione delle balene (almeno secondo Ian Buruma). E appena si scopre che non è stato Trump ma la polizia messicana a far scrivere un numero – in pennarello – sul braccio dei bambini alla frontiera, non è stato Trump ma Clinton ad avviare la costruzione del Muro, non è stato Trump ma Obama ad avviare la pratica orrenda di separare i figli dai genitori, ecco che l’ argomento alla gran parte dei media non interessa più. Denunciare questo non significa essere trumpisti; al contrario, significa segnalare il pericolo che un grande comunicatore come Trump si avvalga dell’ evidente parzialità del sistema dell’ informazione, per dire agli elettori: vi stanno ingannando, loro sono l’ élite, voi il popolo; e io sto con voi. Esattamente quel che è accaduto nella campagna elettorale del 2016, e sta accadendo ancora.
Ma l’ errore più grave della sinistra è stato non accorgersi che, preoccupata degli ultimi – per buon cuore o anche per autocompiacimento -, si stava scordando dei penultimi. Degli americani – e degli italiani – poveri. Degli operai che hanno perso il lavoro, o dei «nuovi operai», il commesso di Amazon, il centralinista dei call center, i giovani precari che si sentono e a volte sono davvero scavalcati da migranti arrivati clandestinamente e disposti a lavorare molto in cambio di poco, magari in nero; del resto, se sono entrati in un Paese violando le sue norme, perché dovrebbero rispettarle in seguito?
Ricorda Rampini che i messicani o gli africani non sono certo venuti in America o in Italia per comprimere i diritti e i salari dei lavoratori; ma un’ immigrazione senza controllo è destinata inevitabilmente a comprimere i diritti e i salari dei lavoratori. Non a caso i due presidenti-icona del progressismo del XX secolo, Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy, fecero una politica molto dura sull’ immigrazione, chiudendo di fatto le frontiere; mentre i capitalismi d’ assalto di frontiere non vogliono sentir parlare, perché hanno bisogno di manodopera a basso costo.
Rampini fa giustizia di molti luoghi comuni. Non è più vero che «gli immigrati fanno i lavori che i nostri giovani non vogliono più fare». Non è vero neppure che «gli immigrati ci pagheranno le pensioni»; perché anche loro invecchieranno e avranno diritto a una pensione, ma a quel punto serviranno altri immigrati che lavorino per pagare la loro, e quindi se davvero la Social Security o l’ Inps devono dipendere dalle migrazioni, allora le migrazioni devono continuare all’ infinito.
A chi abbia giovato, ad esempio, la carovana dall’ Honduras messa in piedi da organizzazioni umanitarie come sfida a Trump, è evidente: ha giovato a Trump, che anche così ha salvato la maggioranza in Senato nelle elezioni del novembre 2018. Ma siamo sicuri che l’ emigrazione giovi ai Paesi poveri? Certo che no. «Aiutarli a casa loro» non è una formula di destra, ricorda Rampini. E cita l’ esempio del Malawi: metà dei medici formatisi nel Paese africano sono ora a Londra; questo agevola la sanità inglese e i suoi pazienti, ma distrugge la possibilità del Malawi di darsi un sistema sanitario efficiente.”