di Mattia Madonia per The Vision
“Qualsiasi forza d’opposizione firmerebbe per avere un governo del genere, per confrontarsi con la sensazione di avere alle posizioni di comando un branco di improvvisati. In meno di un anno sono riusciti a far crollare l’economia, a bruciare miliardi e a compromettere il futuro delle prossime generazioni.
Un’opposizione sana, audace e volitiva avrebbe avuto vita facile risalendo nei sondaggi, smontando le politiche governative e rappresentando una valida alternativa all’antipolitica e al dilettantismo.
Noi però abbiamo il Pd. Dopo il tonfo elettorale del 4 marzo, la scelta del Pd è stata quella di mangiare pop corn osservando il disastro.
Se per 20 anni la strategia è stata “Berlusconi è il male, prima o poi se ne accorgeranno tutti, alle prossime elezioni toccherà a noi”, adesso si tenta di replicare le azioni di una quella stagione politica.
“Facciamoli finire contro l’iceberg” risulta però controproducente sia per il Paese che per il partito stesso, condannandolo all’irrilevanza e facendo il gioco della Lega e del M5S, che non si fanno scrupoli a far salire sulla nave quanta più gente possibile.
Ad esempio, tra tutti i sacrosanti modi per criticare il reddito di cittadinanza, il Pd ha scelto l’unico sbagliato.
Poteva far leva su una misura fatta in debito e non con le coperture promesse dal M5S in campagna elettorale, sull’impossibilità di riformare in modo adeguato i centri d’impiego, sull’assurda proposta dei tre lavori – quando non se ne trova nemmeno uno – su un costo che pagheranno le generazioni future, sulla grande piaga del lavoro nero in Italia, su un assistenzialismo fine a se stesso che sostituisce delle vere riforme strutturali, sulla platea degli aventi diritto che si è drasticamente ridotta.
No, il Pd ha deciso di attaccare quello che per storia e natura del partito dovrebbe essere il suo elettorato, quelle persone che non arrivano a fine mese e che così finiscono per aggrapparsi a qualsiasi strampalata promessa (come in passato accadeva con Berlusconi).
Li ha dileggiati, ha scritto tweet per deriderli e parlare di “vita in vacanza” o di divani, intendendo il luogo degli scansafatiche. Invece di colpire i carnefici ha attaccato le vittime, con uno snobismo fuori tempo massimo che storicamente non può più permettersi.
Un altro passo falso nel modo di fare opposizione, o non-opposizione, riguarda la totale assenza di proposte – per il futuro del partito o per il Paese – e soprattutto un’insistenza su paragoni controproducenti.
Gira da tempo un azzeccato post di Lercio che recita: “Duro attacco del Pd al M5S: ‘Fate schifo come noi!’”.
Quando è scoppiato il putiferio sul salvataggio della banca Carige, il Pd ha pressappoco scimmiottato il post di Lercio, accusando il governo di comportarsi esattamente come avevano fatto loro in passato.
In quel caso si mirava a smascherare l’ipocrisia dei grillini e a spiegare che salvare le banche vuol dire tutelare i risparmiatori.
Stesso dicasi quando vengono rivendicati gli accordi di Minniti con la Libia, creando il cortocircuito su chi è più di destra tra Salvini e l’ex ministro dell’Interno (che almeno i porti non li chiudeva).
Anche nella famosa “guerra dei padri”, che ha coinvolto Di Battista, Di Maio, Renzi e Boschi, i siparietti social su chi avesse il padre meno inguaiato rasentavano il ridicolo.
Una questione fondamentale che il Pd non ancora afferrato, e su cui continua a sbattere la testa, riguarda l’errore politico sull’antico detto “il nemico del mio nemico è mio amico”.
Che tradotto in esempi concreti porta a un nome e a un cognome: Emmanuel Macron.
Il fatto che Gentiloni abbia lanciato slogan come “Da Macron a Tsipras si vince”, e Renzi abbia firmato con il presidente francese un patto contro i sovranisti, è la manifestazione che le idee all’interno del partito sono poche e confuse.
Macron rappresenta di certo il principale nemico internazionale del governo gialloverde, ma questo non fa di lui uno statista illuminato o addirittura la stella polare della sinistra europea – anche perché di sinistra ha ben poco.
Disprezzare i nazionalismi di Orbán e di Visegrad non porta automaticamente a fiancheggiare un presidente pieno di contraddizioni.
Perché quando a Ventimiglia i migranti continuano a essere vittime di abusi, di respingimenti illegali e di soprusi che colpiscono anche i minori non accompagnati, viene meno il senso dei presunti ideali di Macron, e resta la sensazione di una politica più sovranista che vicina a qualsiasi chimera progressista.
Quello che però gli elettori non possono perdonare al Pd è l’associazione – mai fermamente combattuta – con Forza Italia.
Va bene essere entrambi forze d’opposizione, ma andava ribadita già ai tempi della campagna elettorale la siderale distanza tra i due partiti.
Invece il Pd sembra pagare la sua personale legge del contrappasso: una vita a vivere come parassiti trincerandosi nell’antiberlusconismo, e poi la condanna di ritrovarsi quasi accomunati nell’immaginario collettivo.
Se già D’Alema e la mancata legge sul conflitto d’interessi avevano dato il via all’idea “sono tutti uguali”, il colpo definitivo viene dal mai rinnegato patto del Nazareno, e negli anni seguenti non è stata messa una vera pezza all’errore.
Gli elettori chiedevano un passo a sinistra, e il Pd candidava Casini a Bologna, pretendevano una croce su Alfano, e il partito rilanciava con Verdini.
Quando il Pd parlava del pericolo di consegnare il Paese alla destra, si riferiva sempre alla Lega, mai a Forza Italia.
L’elettorato si è trovato così al buio, disorientato, in una terra di nessuno dove è diventata una vergogna ammettere di votare il Pd, o anche solo appoggiare una sua iniziativa.
Se prima il partito veniva votato tappandosi il naso, adesso si fa fingendo di non averlo mai fatto. Come un tempo gli elettori di Berlusconi, appunto.
In mezzo a tutti questi dilemmi, è imperdonabile il ritardo legato a qualsiasi scelta. Invece di analizzare e comprendere la sconfitta di marzo ci si è accasati nel mantra “non siamo come loro”- che per carità, è vero, ma la gente aspettava un esame di coscienza, un’autocritica che non è mai arrivata in modo sincero.
C’è stato il teatrino sul ruolo di Renzi, su Gentiloni che è stato rimesso in naftalina, sul povero Martina sacrificato per mesi come reggente parafulmine, utile per beccarsi i fischi a Genova e poi rispedito nel dimenticatoio.
Il congresso è stato rinviato più volte, ancora non ci sono state le primarie; e tra i candidati c’è stato il fuggi-fuggi, in primis il grande rifiuto di Minniti, l’uomo più a destra del Pd, colui che ha firmato accordi in Libia che rasentano la disumanità – gli stessi che hanno cercato di azzerare gli sbarchi, e su cui Salvini si sta aggrappando rivendicando “meriti” non suoi.
Inizialmente aveva l’appoggio di Renzi, poi si è defilato spiegando di farlo “per il bene del partito”, e questa non è altro che la summa della confusione del Pd e in sostanza di chi continua a capirci poco.
Serviva un segno di discontinuità con il passato, e il massimo sforzo prodotto è stato qualche slancio di Calenda, tra cene poi annullate e manifesti per l’Europa che suonano un po’ come stratagemmi per nascondere il nome Pd dalla campagna europea.
Le facce restano quelle, le idee latitano e non c’è nessun progetto concreto. Di certo si stanno nascondendo bene, ma il rischio che i pop corn vadano di traverso è alto.
Il problema più evidente resta comunque quello di una comunicazione più che deficitaria.
Nessuno chiede di parodiare i populisti e cominciare una martellante campagna social con, per esempio, Cuperlo che posta una foto mentre addenta un pollo arrosto e Giachetti che augura un biongiornissimo-caffè ai settantenni.
Quello è giusto lasciarlo agli altri. Semmai è incredibile il modo in cui l’operato della scorsa legislatura sia stato totalmente travisato dagli italiani.
Tutti associano il Pd al disastro, non a un partito che ha preso, nel 2013, una nazione allo sbando e l’ha lasciata, nel 2018, con numeri migliori e un’economia in crescita.
Oggi alla gente sembrano non interessare i risultati di Industria 4.0, vuole un immigrato da insultare o un post dove sfogare il suo bisogno quotidiano di “e allora il Pd?”.
E se tutto questo è avvenuto, compresa l’ascesa dei populisti al governo, la colpa è di chi non ha saputo spiegare quel che stava facendo, lasciando che i cittadini cercassero le loro risposte nella propaganda di leader “forti”.
In un Paese dove la percezione è più importante della realtà, se si sbaglia la narrazione crolla tutto il contorno, e restano solo le macerie.
Abbiamo un governo che propone Lino Banfi come massima figura culturale per ruoli di prestigio all’Unesco, e un’opposizione che non ha la credibilità per poter controbattere.
Perché non ha senso sottolineare le pecche di esecutivo raffazzonato, xenofobo e pericoloso, quando non si ha lo straccio di un progetto, una visione futura o anche solo un contatto diretto con il proprio elettorato.
Non serve una guida per capire che siamo governati da un’accozzaglia impresentabile, non c’è bisogno di evidenziare le nefandezze degli altri, quando queste sono così palesi.
Serve però essere rappresentati da un partito vero, non dal simulacro di quello che poteva essere e non è stato, dal fantasma di se stesso che rinnega il suo nome e gioca a nascondino mentre la nazione crolla.
Quando il Totocalcio era ancora in voga, per un periodo era entrata in vigore la regola della vittoria in caso di zero, ovvero tutti i pronostici sbagliati.
Era meno semplice del previsto, e forse oggi il Pd sta riuscendo in questa impresa titanica: sbagliare tutto, facendo en plein.
Nel frattempo però dopo 72 anni il Totocalcio non esiste più.”