di Wanda Marra per Il FQ, 11-6-19
Dentro il Pd, dopo i ballottaggi, i riflettori sono tutti puntati sui risultati di Campobasso. Perché è lì che i 5Stelle hanno conquistato la città con il loro candidato, Roberto Gravina. Che ha conquistato il 69% dei voti, anche grazie agli elettori di centrosinistra. Ed è da qui che partono i ragionamenti in casa Dem. Il punto sono sempre i rapporti con i Cinque Stelle: un’alleanza organica prima delle Politiche è impensabile e impossibile (non ci sarebbero neanche i numeri).
Nicola Zingaretti, però, sono mesi che va ripetendo di essere alla ricerca dei voti dei Cinque Stelle. E nella prossima legislatura il tema si porrà: l’unico modo che ha il Pd per contare ancora è quello di fare asse con il Movimento (o almeno con la parte che non deciderà di spostarsi verso il centrodestra).
Ma adesso si pone un’altra questione: come fare a unire le forze (dunque i voti) di Pd e Cinque Stelle?
E allora, dalle parti del Nazareno, è tutto un discutere di patti di desistenza, soprattutto in caso di voto a settembre. Di che si tratta? Dell’accordo con il quale una lista rinuncia a presentarsi in uno o più collegi elettorali allo scopo di far convergere il proprio elettorato su un’altra lista concorrente in quel collegio. In ambienti vicini al segretario si discute delle formule anche se ufficialmente Zingaretti nega che l’opzione sia sul tavolo.
IL PRIMO ESEMPIO che si fa è quello che dovrebbe ricalcare il comportamento di Rifondazione nel 1996 nei confronti dell’Ulivo di Romano Prodi: il partito di Bertinotti evitava di presentarsi nella maggior parte dei collegi uninominali, invitando i suoi elettori a votare per i candidati dell’Ulivo, in cambio della reciproca disponibilità della coalizione nei collegi residui.
In questo modo l’Ulivo vinse le elezioni e Rifondazione (che ottenne l’8,6% dei consensi al proporzionale alla Camera, eleggendo 35 deputati e 10 senatori) fu determinante per assicurare al governo Prodi la maggioranza alla Camera. La soluzione, in realtà, è di ardua applicazione: perché significherebbe un patto politico organico, mentre sia Zingaretti sia Paolo Gentiloni pensano che la prossima campagna elettorale debba essere fatta anche contro il Movimento.
L’altra opzione sarebbe quella di una desistenza sotterranea, un po’ come hanno fatto Forza Italia e Pd alle Politiche del 2018: ovvero studiando il modo nei collegi di evitare scontri frontali tra big e utilizzare una precisione “matematica”nell’o pporre a un candidato renziano che doveva essere eletto uno debole berlusconiano e viceversa.
Anche su questo ci sono delle perplessità, dettate soprattutto dal fatto che in molti casi i flussi elettorali hanno evidenziato che il candidato influenza l’elettore fino a un certo punto.
PERÒ, a studiare un modo per renderlo se non efficace, quantomeno possibile, è il senatore di LeU, Federico Fornaro. “Ci vorrebbe una piccola modifica alla legge elettorale.
Adesso esiste un’unica scheda, per il maggioritario e per il proporzionale”. Questo significa che un elettore ha a disposizione un unico voto per scegliere tutti i parlamentari. Invece, spiega Fornaro, “bisognerebbe prevederne due, attraverso una doppia scheda, rispettivamente per il proporzionale e per il maggioritario, com’era per il Mattarellum. Questo renderebbe l’anti-destra più forte, evitando la dispersione dei voti”.
Ma il punto è: è possibile trovare i voti in Parlamento per tale modifica? Difficile. Zingaretti con chi ci ha parlato ragiona così: “Il dato politico che esce da questi ballottaggi è che il voto dei Cinque Stelle e quello della Lega non si somma più in automatico.
Ora quando andiamo ai ballottaggi con la Lega i voti degli elettori grillini non è detto che vadano al Carroccio”.