La recensione di Michele Anselmi per Siae
Ken Loach indaga sul mondo Amazon, il lavoro come il rubinetto e la famiglia va in rezzi.
Che cosa rende così speciale il cinema di Ken Loach? L’apparente semplicità del racconto. Se i fratelli Dardenne o Robert Guédiguian praticano, su temi simili ramo “working class”, sperimentazioni di stile o affondi poetici, il cineasta inglese, oggi 83enne, va sempre dritto al cuore del problema.
Il piglio è finto-documentaristico, non a caso tutto è sempre molto scritto dal fedele sceneggiatore Paul Laverty, e tuttavia ogni film restituisce un pezzo di vita dei suoi personaggi come fosse rubata da una cinepresa nascosta.
Vale anche per il nuovo “Sorry We Missed You”, ventiseiesimo lungometraggio di Loach, che arriva a tre anni da “Io, Daniel Blake”.
Sarà nelle sale da giovedì 2 gennaio 2020 con Lucky Red e vi assicuro che merita una visita, nonostante l’argomento non proprio festivo e liliale.
Il titolo viene dalla frase, a suo modo emblematica, stampata sul cartoncino che i corrieri per conto di Amazon e altre aziende lasciano quando non trovano il cliente. Appunto: “Sorry We Missed You”, ovvero “Ci dispiace di non averla trovata”.
La vicenda, cruda e dolorosa, riguarda una famiglia messa in ginocchio dalle logiche spietate, crudeli, della cosiddetta “gig economy” basata sul lavoro accessorio, naturalmente all’insegna di uno sfruttamento bestiale, in buona sostanza precario, nonostante le apparenze da mano d’opera “autonoma”.
Siamo di nuovo a Newcastle, la città in cui moriva d’infarto il sessantenne Daniel Blake. Anche il più giovane Ricky Turner è una stakanovista nato: ha fatto di tutto, l’idraulico, l’operaio, il falegname, ha pure scavato fosse al cimitero, ma adesso cerca un lavoro sicuro, più stabile.
Il crack finanziario del 2008 gli impedì di comprare una casa, però l’affitto lo sta dissanguando. Così accetta di lavorare per una ditta di media grandezza, la Pdf, che consegna pacchi per conto di Amazon e aziende simili.
Solo che per essere “associato” deve possedere un furgone moderno, bianco, possibilmente un Wolkswagen, e soprattutto non deve sgarrare una consegna, secondo quanto previsto da un costoso box-scanner che traccia e regola il traffico dalla centrale.
Questo il contesto, vagamente alienante per lo stress e le ore di lavoro, nel quale Ricky si trova a mettersi in gioco, senza accorgersi che tutto sta franando attorno a lui: la moglie Abby, badante a ore sempre in giro per città, ha dovuto vendere l’auto per acquistare il costoso furgone, i figli Seb e Liza Jane, specie il primo, un “graffitaro” ribelle, danno segni di insofferenza, si sentono abbandonati dal padre sempre più affaticato.
Girato in ordine cronologico, spesso tacendo agli interpreti alcuni snodi narrativi cruciali per restituire la naturalezza delle reazioni, “Sorry We Missed You” è un Loach che più classico non si può.
La tensione crescente provocata dai contrattempi piccoli e grandi, spinge la famiglia Turner verso una collettiva crisi di nervi, un crollo anche economico; solo che Ricky non può accettare un’ennesima sconfitta.
Certo, a differenza di film come “La parte degli angeli” o “Il mio amico Eric”, c’è poco da ridere, incombe un senso di tragedia, anche perché Loach non fa che moltiplicare le disgrazie, francamente troppe, l’una dietro l’altra, per portare la situazione sull’orlo del baratro.
Naturalmente gli interessa raccontare le nuove frontiere di un lavoro disumano e pressante, che oggi c’è e domani chissà, dove la tecnologia non libera l’uomo ma lo rende ancora più schiavo.
La più totale assenza di colonna sonora musicale, con l’eccezione di un brano diegetico, dona al film un sapore di verità, e certo l’inglese ruvido e veloce che echeggia fa tutt’uno con le facce dei personaggi.
Kris Hitchen e Debbie Honeywood sono perfetti, anche fisicamente, nei ruoli di Ricky e Abby, così come i più piccoli Rhys Stone e Katie Proctor, mentre Ross Brewster incarna l’insensibile boss Maloney, che detta tempi e distribuisce sanzioni.
Qualcuno dirà che Ken Loach “fa sempre lo stesso film”; un po’ è vero, ma ognuno di essi svela una condizione umana e mette il dito in una piaga del nostro vivere occidentale.