di Marco Palombi per Il FQ, 20-8-19
Il 27 maggio, all’indomani del trionfo delle Europee, era difficile immaginarsi Matteo Salvini finire (quasi) all’angolo.
D’altra parte era quasi impossibile pure immaginarsi la Lega al 34% quando il futuro “Capitano” prese in mano un partito del 4% nel lontano 2013.
Sic transit certo, è storia nota ed è anche vero che la gloria, come passa, a volte torna, ma l’opposizione è un ottimo luogo per un movimento con percentuali a una cifra, assai meno per un partitone piglia-tutto che, assieme ai very normal people , vuole rappresentare pure l’Italia che produce, fattura e pretende (parecchio): quella è gente che ha bisogno di tavoli istituzionali, non certo di banchetti per le firme.
IL CONSENSO è bestia strana e pure il sociologo Luca Ricolfi ha ricordato al buon Matteo che, in minoranza, potrà dire presto addio all’effetto bandwagon, cioè al benefico apporto dei voti di chi, per natura, corre in soccorso del vincitore: sarà forse per questo che il doge veneto Luca Zaia, punto di riferimento della corrente nord-affarista del partito, si fa dipingere sui giornali come “irritatissimo”per il passo falso del leader.
E insomma sempre lì si torna, nell’ultima giornata romana del vicepremier prima del redde rationem di Palazzo Madama: al modo incredibile e misterioso in cui è riuscito a incartarsi passando da Gran Dj d’Italia che invoca “pieni poteri” a uomo solo contro tutti che rischia di farsi mettere fuori dal governo per anni, con annesso addio alla possibilità di eleggere il prossimo presidente della Repubblica, restando invece alla mercé delle Procure di Agrigento (migranti) e Milano (Savoini).
Dieci giorni o poco più.
Tanto è bastato per rovesciare la situazione e restituire ai moribondi grillini un ruolo centrale nella politica italiana: è il tempo che passa da “il Parlamento prenda subito atto che non c’è più una maggioranza e dopo si restituisca la parola agli elettori”(8 agosto) a “ai 5 Stelle dico che il mio telefonino è sempre acceso, spero di fare il ministro dell’Interno ancora a lungo” (18 agosto).
In mezzo c’è un caos che ha investito anche l’ultimo partito leninista d’Italia, la Lega: “Gli altri hanno le direzioni o Rousseau, noi abbiamo un leader, decide lui”, ha spiegato Giancarlo Giorgetti, come a dire “che volete da me?”.
La cognizione del dolore leghista ha il volto di Roberto Calderoli: dicono gli uffici del Senato che l’ex ministro – padano da una vita e unico big d’antan salvato (con Giorgetti) dall’epurazione salviniana – abbia presentato una risoluzione che sfiduciava Conte in vista della seduta di oggi, ma poi abbia richiamato per chiedere che venisse ritirata “come se non fosse mai stata presentata”.
LA GIRAVOLTA salviniana, va detto, è rapida e ha il pregio della spudoratezza: si passa da “il 20 sfiduceremo Conte” (14 agosto) a “non ho mai detto di voler staccare la spina al governo” (15 agosto).
Alla conversione a U del leader è seguita quella dei colonnelli: il ministro Gianmarco B, ripreso il 13 agosto in Senato mentre imprecava “ma con chi cazzo abbiamo governato?”, due giorni dopo metteva a verbale che “io sono uno che non chiude mai la porta”.
Alla proposta della disperazione leghista (Di Maio premier, Conte a Bruxelles) la porta l’hanno però chiusa i grillini, anche se molti nella Lega credono ancora che la fronda filo-leghista nei gruppi parlamentari sia nutrita e impedirà il ribaltone: sperare, si sa, non costa e fa male solo un po’.
Ma com’è stato possibile arrivare fin qui?
Giorgetti ha già indicato il primo errore: la crisi Salvini doveva farla a giugno o a inizio luglio, come dicevano tutti, compreso Sergio Mattarella, preoccupato che non ci fosse poi il tempo per votare e fare la manovra.
I motivi per cui, in splendida solitudine, il segretario leghista abbia deciso di calare il sipario quasi a ferragosto li conosce solo lui.
Quel che è successo dopo, però, lo ha sorpreso.
Due cose su tutto: l’uscita di Beppe Grillo che ha benedetto l’esecutivo M5S-Pd e la sconfitta interna di Nicola Zingaretti, che gli aveva garantito che i dem non si sarebbero prestati a fare da stampella ai grillini.
IERI, arrivato a Roma nel pomeriggio, Salvini pare aver preso coscienza che indietro non si può tornare e avanti verso le urne non si può andare: “Chi ha paura del voto?”, ha arringato in video sui soci al con toni grillini (“parlamentari e ministri sono dipendenti pubblici, il popolo italiano gli paga lo stipendio”).
La giornata l’ha passata, tra l’altro, ad aggiornarsi col Viminale sullo stallo della nave della Ong spagnola Open Arms, la vicenda su cui s’è beccato la letteraccia (“ossessiva concentrazione sui porti chiusi”, “ennesimo esempio di sleale collaborazione”) con cui Giuseppe Conte lo ha messo, forse definitivamente, all’angolo di una crisi che lui stesso aveva provocato: sarà su quell’ossessione – non disgiunta da una certa tendenza all’assenteismo (“questo governo non ha smesso di lavorare, non era in spiaggia”, sempre Conte) – che lo provocherà il premier.
Se un qualche accrocco governativo alla fine nascerà, e se durasse, Salvini è pronto all’opposizione anche in piazza: in piazza si sta bene, per carità, ma un partitone piglia-tutto ha bisogno del governo, sennò piglia-niente e alla fine appassisce.
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