Maurizio Caverzan per “la Verità”
È una delle menti più lucide del panorama scientifico italiano. Sociologo, docente di analisi dei dati all’università di Torino, Luca Ricolfi è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume: leggere le sue riflessioni aiuta a diradare la nebbia che avvolge il paesaggio politico nostrano. In questi giorni sta completando la stesura di La società signorile di massa, il saggio in uscita a ottobre per La nave di Teseo, ma ha ritagliato un po’ di tempo per rispondere alla Verità sulla crisi più anomala della storia della Repubblica.
La differenza tra i due populismi è venuta al pettine. Quello del Nord e del fare e quello del Sud e della decrescita. Si aspettava che il governo gialloblù durasse più a lungo?
«No, pensavo che sarebbero andati avanti ancora un po’, dal momento che Salvini poteva dettare l’agenda».
Secondo lei che cosa davvero ha fatto rompere gli indugi a Matteo Salvini? I no ribaditi del M5s, la prossima manovra (flat tax o salario minimo?), il nodo giustizia, i sondaggi segreti…
«Nessuna di queste cose. Secondo me, ma posso sbagliare, Salvini ha puntato sul voto per altri due motivi. Primo: il delirio di onnipotenza che verrebbe anche a me e a lei se andassimo in costume da bagno in una spiaggia e la folla andasse in visibilio per noi.
Secondo: l’imminente arrivo al pettine del nodo dell’autonomia, che gli avrebbe alienato il consenso del Sud. Il progetto di Salvini era incassare anche i voti del Sud, e questo poteva farlo solo prima di scoprire le carte antisudiste sull’autonomia».
Con questa decisione ha messo all’angolo le opposizioni?
«No, ha messo all’angolo se stesso».
Non crede che se si voterà in ottobre raccoglierà percentuali superiori a quelle delle europee, mentre se si rinvierà a primavera, con in mezzo un esecutivo di scopo, del Presidente, di garanzia ecc. potrebbe avere un consenso ancora superiore?
«In realtà potrebbe anche andare in tutt’altro modo. A mio parere una parte del consenso di Salvini, specie al Sud, è legato al suo essere al comando, al suo essere percepito come vincente. È quello che i sondaggisti chiamano bandwagon: saltare sul carro del vincitore. Se l’effetto bandwagon finisce, e la vicenda della sfiducia a Conte finisce malamente, il consenso a Salvini potrebbe tornare sotto il 30%».
Il leader leghista non potrà condurre la campagna elettorale da ministro dell’Interno. Come pensa che Mattarella supererà questo vincolo?
«Ritengo improbabile che si vada al voto, e tutto sommato marginale il problema che al Ministero dell’interno ci sia Salvini. O qualcuno pensa che potrebbe manipolare i risultati?».
Tutti si affidano all’equilibrio del Capo dello Stato e ognuno lo tira dalla propria parte. Concorda con la sensazione che non si abbasserà a legittimare accordi artificiosi di Palazzo?
«No, non concordo. E non penso nemmeno che sia un abbassarsi. Certo, io ritengo più saggio e più giusto andare al voto, ma è una mia personale convinzione. Finché la Costituzione è quella che è, non è solo legittimo, ma è doveroso che il Capo dello Stato verifichi se esistono altre maggioranze in Parlamento. Il problema non è Mattarella, il problema è il trasformismo di Pd e Cinque stelle».
Si può dire, in astratto, che questa crisi coglie tutti tranne Lega e FdI a metà del guado?
«Sì, tutti sono a metà del guado, ma Lega e Fratelli d’Italia sono a loro volta impelagati: rischiano di essere sommersi dall’attaccamento di tutti gli altri ai seggi parlamentari».
Solo ritornando forza d’opposizione il M5s può far risalire le sue azioni? O ha altre alternative davanti? Un accordo con il Pd potrebbe diventare un boomerang alle prossime elezioni, quando saranno?
«Non so rispondere, perché il M5s è un ectoplasma cangiante, forse per riconquistare i voti perduti dovrebbe innanzitutto darsi una linea non ondivaga».
Che giudizio dà delle mosse di Matteo Renzi?
«La capriola di Renzi sul governo con i Cinque stelle è la più spregiudicata della storia della Repubblica».
Che consenso e che credito potrà avere la sua Azione civile o un’altra sigla analoga se dovesse varare un nuovo partito?
«Secondo me, allo stato attuale, un partito di Renzi non andrebbe oltre il 5%. E questo per una precisa ragione politica, non solo perché il ragazzo è ancora parecchio antipatico a buona parte degli italiani».
Quale ragione?
«Renzi è la destra del Pd sulla politica economica, vedi jobs act, ma è la sinistra sulla politica migratoria: ancora oggi difende “mare nostrum” e l’accoglienza senza se e senza ma. Credo che sia per questo che ha bloccato la candidatura di Marco Minniti alla segreteria del Pd. Difficile che tanti elettori votino un ircocervo come il partito di Renzi».
Quanto è demagogica l’imprescindibilità della riduzione dei parlamentari proclamata da Luigi Di Maio, e abbracciata da Renzi, dopo l’annuncio della crisi?
«Diciamo che se la demagogia va da 0 a 100, siamo a 90».
È stato un errore da parte di Salvini aprire al taglio dei parlamentari dopo aver deciso la sfiducia a Conte?
«Più che un errore è stata una mossa inutile. L’errore è stato fatto prima, e secondo me non è un errore di tempi, ma di sottovalutazione degli avversari. Salvini credeva di essere lui il più spregiudicato, ma ha dovuto prendere atto che c’è chi è più spregiudicato di lui».
Quante probabilità di riuscita ha un accordo di largo respiro tra Pd e 5 stelle?
«Le probabilità di un accordo mi paiono altissime. Quelle di un accordo “di largo respiro” un po’ meno, ma comunque non sono trascurabili. Perché il Pd e il movimento Cinque stelle potevano sembrare due animali politici molto diversi prima delle elezioni del 2018, quando al timone del Pd non c’era Nicola Zingaretti, e al governo non c’era ancora Di Maio. Ma ora si assomigliano moltissimo, e credo che se faranno un governo avranno il problema opposto a quello che hanno avuto Salvini e Di Maio».
In che senso?
«Salvini e Di Maio dovevano lottare per trovare qualcosa che li unisse, Di Maio e Zingaretti dovranno ingegnarsi a trovare qualcosa che li differenzi».
La strategia «Tutti tranne Salvini» è il modo più efficace per fermarlo?
«Non so se è il più efficace, ma è comunque molto efficace, come lo è stata contro Berlusconi. È in fondo anche l’unico possibile, in mancanza di vere idee e veri progetti politici».
Allargando l’alleanza a Berlusconi e Giorgia Meloni, Salvini dimostra di aver capito che sarebbe un errore giocare «io contro tutti»?
«Non so, Salvini mi sembra estremamente confuso».
Contro i giornali, contro gli altri partiti, l’Europa, le banche, la magistratura. Rischio deriva plebiscitaria, rischio Paese spaccato, tensioni sociali… Anche contro il Papa. Come valuta i pronunciamenti di Bergoglio in tema di Europa e sovranismi? Possono avere un’influenza importante?
«Bergoglio fa il Papa, l’errore è nostro che lo ascoltiamo come fosse un politico. La sua testa funziona come quella di un terzomondista degli anni Sessanta, che una macchina del tempo ha trasportato ai giorni nostri».
Berlusconi accetterà un ruolo subalterno nella coalizione di centrodestra?
«Sì, se gli daranno abbastanza collegi sicuri».
Se si votasse in autunno vede il pericolo di una deriva antieuropea?
«No, semmai vedo il pericolo di una deriva proeuropea. La paura per le reazioni dei mercati finanziari rinforza i partiti tradizionali, e rischia di far dimenticare i problemi che le forze sovraniste hanno sollevato, dai migranti al ristagno economico. Il dramma dell’Italia è che, per i problemi principali del Paese, né i sovranisti né i loro nemici hanno soluzioni che funzionerebbero».
Quanto crede alle tentazioni politiche di Urbano Cairo? Anche per lui le prossime elezioni sono premature?
«Sì, se si vota in ottobre nessuno, non solo Cairo, riesce a creare un partito competitivo. Forse l’unico che potrebbe combinare qualcosa è De Luca, il governatore della Campania, che sta preparando una lista sudista per stoppare l’autonomia delle regioni del Nord».
Anche questo spiega la contrarietà del Corriere della Sera alle elezioni in autunno?
«Il Corriere è istintivamente per la stabilità. Credo che, per come è fatta la loro forma mentis, i giornalisti del Corriere non facciano grandi sforzi per autoconvincersi che le elezioni in autunno, con la legge di bilancio alle porte, siano un rischio».
Come giudica la narrazione poco istituzionale del Papeete Beach?
«A me piace il popolo quando mette le élite di fronte a problemi veri, non quando sta al gioco dell’élite – Salvini è élite a tutti gli effetti – che si fa acclamare fingendosi popolo. Non sta scritto da nessuna parte che per essere amati dal popolo si debbano assumere atteggiamenti trash, o da spaccone. Non sono mai stato comunista, ma se devo indicare un modello di rapporto fra élite e popolo penso a Berlinguer, non ai commedianti di terz’ordine che oggi passa il convento».
In che senso Salvini è élite?
«Lo considero élite per il reddito, è stato parlamentare europeo, è per il potere: ministro e capo del primo partito italiano. Nelle scienze sociali, diversamente da quel che accade in alcuni media, il termine élite è avalutativo, o addirittura connotato positivamente».
Ogni volta che le sinistre attaccano, sempre con una dose di superiorità morale con il tono di rimprovero, torna il boomerang e Salvini sembra non patire questi attacchi. È accaduto con il Papeete, Carola Rackete, il Russiagate…
«Potrebbe non accadere di nuovo, e solo per colpa di Salvini. Una parte del suo consenso è dovuto alla tendenza degli italiani a stare con il più forte, e potrebbe svanire quando cambierà il vento».
Sembra che quella supponenza diventi un lievito che fa risaltare il carattere pop del leader leghista.
«C’è pop e pop. Si può essere pop senza essere volgari e offensivi».
Concorda con il fatto che, mai come questa volta, fotografa ciò che sta accadendo la famosa frase di Bertolt Brecht: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo»?
«Concordo. Però la riformulerei così: “Poiché il popolo non è d’accordo, e noi non siamo in grado di nominarne uno nuovo, meglio togliere la parola al popolo”».