A dodici anni ero magrolina e di bassa statura, la crescita si era fermata a dieci anni, quando ero diventata “signorina”, come si diceva allora con garbato, ma ipocrita, eufemismo. E poi guai a parlarne in pubblico! Non ne capivo il motivo, la questione mi appariva misteriosa, ma non mi azzardavo a chiedere spiegazioni.
Vestivo ancora da bambina, con i calzini corti.
Al ginnasio tutte le mie compagne indossavano già da tempo le calze di nylon.
E soltanto allora, dietro vibranti insistenze, ottenni il permesso di comprare calze e reggicalze. Mi sentivo finalmente grande, ma che tortura!
Ero gracile e l’impegno nello studio mi rendeva ancora più pallida e magra. A casa ero sempre immersa nello studio, perché quell’anno, in terza media, avevo cambiato scuola e paese.
Mio padre era stato trasferito alla stazione di Frattamaggiore-Grumo e ne era felice; dopo tanti anni era tornato nella sua terra per chiudere la carriera.
Io non ero altrettanto felice, mi mancavano le mie compagne,
la mia prof di Lettere, Clara Urso Verrecchia, la mia aula piena di sole nel castello baronale di Acerra.
L’aula era poco spaziosa ed eravamo pigiate nei banchi, senza nemmeno lo spazio per passare; in compenso c’era una porta finestra che si apriva su una ampia terrazza usata come palestra all’aperto.
Nelle belle giornate uscivamo in terrazza per l’intervallo e allora dimenticavamo anche di stare a scuola.
Quel castello antico, che allora denunciava tutti i suoi anni, accendeva la mia fantasia: immaginavo di percorrerne i tortuosi corridoi, di salire lungo una stretta scala a chiocciola fin sulla torre, per poi affacciarmi ad uno stretto pertugio, da cui si poteva spaziare sulla campagna.
Mi vedevo protagonista di mille avventure in cui avrei incontrato il signor Rochester, che ai miei occhi aveva le sembianze di Raf Vallone, il protagonista dello sceneggiato televisivo Jane Eyre.
Avevo letto anche il libro di Charlotte Brönte dal quale era stato tratto lo sceneggiato e da allora Jane Eyre era diventata la mia eroina.
Oggi non riconoscerei quei luoghi: il castello ha subito un radicale restauro ed ospita il Municipio.
Per me era un luogo sereno e accogliente, dove studiavo con piacere e senza fatica.
La mia prof di Lettere era fantastica: ci faceva appassionare allo studio con tante interessanti e divertenti attività.
Nella gara dei verbi latini vinsi tutti gli incontri e meritai il primo premio tra gli applausi delle compagne: una spilla in forma di grappolo d’uva, con verdi chicchi di vetro, che sfoggiai con orgoglio al matrimonio di mia zia Anna.
Purtroppo quel trofeo è andato perso nei vari traslochi della mia vita.
La prof ci avviò anche allo studio della Costituzione, che in quel tempo era ancora giovane (aveva la mia età) e ci appariva bellissima.
A Frattamaggiore, invece, un vecchio palazzo era adibito a scuola, con aule buie e umide, senza riscaldamento.
Fui accolta in classe con ostentata diffidenza, perché ero “forestiera” e non appartenevo ad una famiglia ricca e influente: così le compagne continuarono per tutto l’anno scolastico a chiamarmi “la nuova” ed anche i prof non si mostrarono all’inizio troppo benevoli. Mi videro come un fastidio e un’intrusa: un’altra alunna in una classe già troppo numerosa!
Quell’isolamento mi spinse a studiare con maggiore intensità e precisione perché desideravo essere apprezzata: se, però, lo fui dagli insegnanti, non altrettanto si può dire dalle compagne.
Avevo scalato troppo rapidamente la graduatoria delle brave, al punto da ritrovarmi al primo posto, sempre più sola.
In quella scuola non contava la socializzazione o il lavoro di gruppo e non si sorrideva mai.
Il mio destino era segnato.
Molti anni dopo, un mio vecchio compagno di liceo incontrandomi mi salutò con queste parole:”Ciao Caterina, eri antipatica perché eri la più brava! “ Chissà che cosa avrebbe detto la prof Verrecchia!
Caterina Abbate