di Marco Palombi per Il FQ, 12-11-19
Per ora si aspetta, ma il campo da gioco è chiaro. Il governo, o almeno il premier e i ministri interessati alla pratica Ilva, hanno deciso la strategia: bastone e carota, volendo ricorrere a una metafora pre-industriale.
Il bastone delle azioni tanto legali (il ricorso d’urgenza) che di controllo che portino allo scoperto la debolezza delle argomentazioni di ArcelorMittal e alcuni suoi comportamenti curiosi, per così dire, nella gestione degli impianti; la carota di una proposta che segnala un’apertura di fondo.
L’APERTURA, d’altra parte, è quasi obbligata: tra regole Ue sugli aiuti di Stato e controcanto “franco-indiano” di pezzi del Pd e dei renziani, una guerra aperta non è possibile.
Quelche manca, ad oggi, è la posizione della multinazionale: dopo aver sparato col cannone della rescissione del contratto, ora pare non aver chiaro fin dove può spingersi.
La reazione tutto sommato compatta di quello che un po’ pomposamente va sotto il nome di “sistema Paese” (a partire dall’azionista di minoranza dell’ex Ilva, Banca Intesa) ha tolto un po’d’abbrivio alla strategia predatoria iniziale.
Solo oggi, ha rivelato l’Ansa, verrà depositato in Tribunale a Milano l’atto di recesso già notificato ai commissari Ilva. Si aspetta, insomma. Ma le proposte in campo sono chiare.
I Mittal sostengono che gli impianti ex Ilva gli costano oltre due milioni al giorno e hanno fatto sapere alla controparte, pur senza esporsi direttamente, che potrebbero restare a queste condizioni: oltre a una qualche forma di esimente penale, 5mila esuberi e un dimezzamento del prezzo d’acquisto proposto da loro stessi due anni fa (1,8 miliardi). Si tratta di una riscrittura del contratto firmato nel 2018 in cui sarebbe lo Stato ad assumersi il rischio d’impresa: il dimezzamento del prezzo corrisponde, all’ing rosso, alle perdite di un paio d’anni.
La proposta del governo non è di chiusura a una riscrittura del contratto, ma ovviamente è di tenore assai diverso. Intanto niente esuberi, ma cassa integrazione più estesa rispetto ad ora (a “zero ore” sono già in circa 1.300 da luglio).
Quanto al prezzo, la posizione del governo è stata esplicitata ieri su Repubblica dal ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia: “Ci può essere anche uno sconto sull’affitto, ma solo se Arcelor si impegna a nuovi investimenti” (sul piano ambientale). Solo allora si potrebbe parlare dell’esimente penale.
Così Giuseppe Conte ieri al Fatto: “Soltanto se Mittal cambiasse idea e dicesse che rispetterà gli impegni previsti dal contratto, potremmo valutare una nuova forma di scudo”.
In sostanza, se c’è un accordo complessivo allora si farà un “decreto Ilva”per riscrivere il contratto e, in quella sede, si inserirà anche la tutela rafforzata per le aziende strategiche ex articolo 51 del codice penale (non è punibile chi sta rispettando un obbligo di legge).
Questa operazione ha persino l’appoggio di una sorta di pasdaran No-Ilva come il governatore pugliese Michele Emiliano (rinegoziare il contratto “non è impossibile”, ha detto ieri) e per questo gli emendamenti per reintrodurre subito l’immunità presentati dai renziani sono parsi a Palazzo Chigi un tentativo di sabotaggio. Resta solo una domanda: e se Arcelor dice di no?
Nonostante le perplessità di alcuni ministri (“no alla nazionalizzazione”, ha ribadito ieri Roberto Gualtieri), la strada è obbligata e si torna all’amministrazione straordinaria con la nomina immediata di un commissario in grado di gestire gli impianti e il via libera a un prestito ponte.
Se, alla fine, si venderà a un altro privato, dovrà essere accompagnato dal braccio pubblico (guardando allo Statuto più Invitalia che Cdp).
A QUEL PUNTO, coi Mittal l’appuntamento sarebbe in tribunale e senza esclusione di colpi a giudicare dal pizzino del ministro Boccia: “Bisogna capire se sono vere quelle perdite. Capire da chi sono state comprate materie prime con prezzi fuori da mercato. Se, per dire, fossero state comprate da altre aziende del gruppo Arcelor…”.