“Giulio Andreotti.
“Sì, voglio dire che, proprio per non sovraccaricarmi di scheletri, io non ho fatto molto male ai miei nemici. Ma non ho fatto nemmeno molto bene ai miei amici”.
Enrico Berlinguer.
Ci manca, un Berlinguer. Uomo di sinedrio più che agitatore di folle, non aveva il carisma né l’oratoria del tribuno: quando appariva su un podio di piazza, sul volto malinconico e nel mesto sguardo gli si leggeva il disagio.
Silvio Berlusconi.
Mentiva senz’accorgersene, come io e voi respiriamo, e disinteressatamente: per il piacere infantile d’inventare e senza nessuna pretesa che noi gli credessimo.
Umberto Bossi.
L’ho sempre sentito usare le parole come gli sciancati usano le gambe, gettandone una di qua, l’altra di là, e rovesciando qualunque cosa gli si pari davanti.
Bettino Craxi.
Di coraggio ne aveva. Una volta seguii sul video un intervento di Craxi dal suo banco di governo alla Camera. Per due volte s’interruppe alla ricerca di un bicchier d’acqua. Per due volte Andreotti, che gli sedeva accanto, glielo porse. E per due volte egli lo bevve.
Alcide De Gasperi.
Se riaprisse gli occhi, De Gasperi non si riconoscerebbe padre di nessuno di coloro che da destra e da sinistra si proclamano suoi figli, e che sono invece i figli del partito che lo tradì.
Enrico De Nicola.
De Nicola arrivò a Roma con aria corrucciata e non volle trasferirsi al Quirinale con la scusa che la sua carica era a termine, nella speranza, dicevano i suoi amici, che gliela revocassero, o in quella, dicevano i suoi nemici, che gliela trasformassero in definitiva.
Antonio Di Pietro.
Non è un genio. Ma anche lui possiede una certa innocenza, che talvolta sconfina nella sventatezza.
Luigi Einaudi.
In pubblico, la sua voce si udiva soltanto per il consueto messaggio di Capodanno: due paginette e via, lette alla svelta, incespicando, senza variazioni di tono e con evidente imbarazzo.
Amintore Fanfani.
Catastrofi erano, quelle di Fanfani, precipizi, inabissamenti, che sembravano travolgere non dei governi, ma dei regimi, immancabilmente seguiti dal solenne voto di rinuncia alla lotta e di ritiro dall’agone.
Roberto Farinacci.
Si procurò glorie militari in Etiopia perché un giorno, lanciando bombe non contro gli abissini, ma in un laghetto per catturarne i pesci, una gli scoppiò in mano amputandogliela.
Giuseppe Garibaldi.
Fu l’unico che seppe suscitare qualche entusiasmo popolare, anche se dovuto più ai lati spettacolari, pittoreschi e buffoneschi del suo modo di essere e di apparire (la papalina, il poncho eccetera) che non a delle vere qualità di capo.
Licio Gelli.
Agli italiani si può togliere tutto, meno un Grande Vecchio.
Guglielmo Giannini.
D’idee non ne aveva, e lui, intelligente com’era, fu il primo, tra i qualunquisti, ad accorgersene.
Giovanni Giolitti.
Per oltre vent’anni, il grande conservatore governò – direttamente o per interposto luogotenente –il Paese introducendovi delle riforme che nessun progressista avrebbe osato o avuto la forza di fare.
Aldo Moro.
Era un generale che cercava di evitare la sconfitta arrendendosi prima della battaglia.
Pietro Nenni.
“Quando mi presentavo sul palco insieme a Togliatti, come voleva la politica del ‘fronte’, la piazza era con me, anche se poi alle urne si schierava con lui”.
Romano Prodi.
Prodi non ce l’ha dato il buon Dio. Ce lo siamo dato noi. Pienamente consapevoli che non era la scelta migliore, ma l’unica che poteva evitarci quella peggiore.
Gaetano Salvemini.
L’unico verso il quale un poco propendeva era il Partito d’Azione perché, diceva, “è già morto prima di nascere”. E io mentalmente rimuginavo: “Altrimenti ad ammazzarlo provvederebbe lui”.
Oscar Luigi Scalfaro.
Il suo è rimasto l’unico caso di presidente disceso dal Colle di buon umore… Nella memoria dei suoi contemporanei, egli è destinato a restare come l’incarnazione della Noia e il profeta dell’Ovvio, ma di un Ovvio mascherato da Rivelazione.
Vittorio Emanuele III.
“Insomma, credo di essere stato fino alla Prima guerra mondiale un vero re: coscienzioso, gelido e ingrato”.
di Indro Montanelli da Il FQ, 19-3-19