Stralcio di un articolo di Luca Ricolfi per Panorama che titola con una domanda:”
“Come ha fatto il Pd a evitare a lungo il tracollo con quel mix micidiale di supponenza ipocrisia e distanza dai ceti popolari?”
Stralcio: ” (…) Ma torniamo all’Italia e alla crisi del Pd.
In nessuna elezione politica del dopoguerra, dal 1948 al 2013, il maggiore partito della sinistra, che si chiamasse Partito comunista, Pds, Ds o Pd era mai sceso sotto il 20 per cento (unica eccezione apparente, il 2001, in cui c’erano due partiti alla pari: Ds e Margherita, complessivamente oltre il 31 per cento).
Che cosa è successo, dunque?
Questa è la domanda che molti si fanno, da qualche mese a questa parte. Io però me ne sono sempre fatta un’altra, negli ultimi 20 anni, e cioè: perché non è ancora successo?
Come ha potuto il maggior partito della sinistra evitare così a lungo il tracollo?
Questa domanda mi ha sempre fatto compagnia dalla fine degli anni Novanta, perché fin da allora mi erano evidenti tre limiti della sinistra riformista, che mi è anche capitato di descrivere e analizzare in qualche libro (La frattura etica, 2002 e Perché siamo antipatici?, 2005).
Il primo limite era l’antipatia della sua classe dirigente, ovvero quel mix di supponenza, oscurità di linguaggio, ipocrisia che si potrebbe sinteticamente descrivere come il «complesso dei migliori».
Il secondo limite era l’atteggiamento completamente acritico verso l’Europa e verso il carattere asfissiante di tante sue regole: non tanto il 3 per cento di deficit, quanto l’ipertrofia delle leggi, delle direttive e dei regolamenti, un male che negli stessi anni Giulio Tremonti denunciava lucidamente in un suo libro (Rischi fatali, 2005).
Il terzo limite, forse il più grave, era la radicale trasformazione della propria base sociale, e la conseguente mutazione del partito della classe operaia in «partito radicale di massa», secondo la definizione (e la profezia) di Augusto Del Noce.
Un partito attento alle esigenze dei ceti medi, per i quali l’immigrazione è innanzitutto una risorsa, e sempre più insensibile a quelle dei ceti popolari per i quali l’immigrazione è un problema, quando non una minaccia.
Poiché questi limiti erano evidenti già vent’anni fa, la domanda vera diventa: perché solo ora?
La risposta, forse, è semplicemente che, fino al deflagrare della crisi (2008-2009), non è stato difficile fingere.
O, se preferite, alla sinistra è stato facile far passare il proprio racconto, la propria narrazione della realtà: noi difendiamo i deboli, noi difendiamo le minoranze, noi stiamo con gli immigrati, noi siamo i difensori dei diritti, noi siamo le forze dell’apertura (dei commerci e delle frontiere).
Quel racconto poteva reggere perché l’economia, sia pur a un ritmo modesto, cresceva ancora, la povertà era ai minimi, l’immigrazione non era fuori controllo e, last but not least, l’offerta politica era stagnante: il movimento di Grillo era appena agli albori (il Vaffa day è del 2007), la Lega non aveva ancora compiuto la «svolta nazionale» che nel 2018 la porterà al potere.
Poi è arrivato il 2011, che ha aperto il vaso di Pandora dei mali del nostro mondo. La crisi finanziaria ha fermato l’economia, il numero dei poveri è raddoppiato, la caduta di Mu’ammar Gheddafi ha moltiplicato le partenze dalle coste libiche.
Ma, soprattutto, i governi di sinistra, tutti a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni), hanno fatto – di fronte a questi cataclismi – due mosse cruciali, che hanno definitivamente cambiato il Dna della sinistra.
La prima è stata di fare dell’accoglienza una questione morale («noi siamo umani, i nostri avversari sono disumani») anzichè un problema politico.
La seconda è stata destinare le poche risorse disponibili (in particolare i 10 miliardi degli 80 euro) sulla propria base sociale tradizionale, fatta di lavoratori dipendenti e garantiti, anziché sui veri deboli: che non sono solo gli immigrati, ma i precari, i disoccupati, i lavoratori in nero e più in generale l’esercito dei poveri cresciuto a dismisura negli anni della crisi.
Di questi due errori una parte della classe dirigente del Pd a un certo punto si è accorta, e infatti, a fine legislatura, è arrivata la stretta sull’immigrazione del ministro Marco Minniti, e un primo timido avvio del Rei (reddito di inclusione), una misura diversa dal reddito di cittadinanza dei Cinque stelle solo nel nome, e per la scarsità di risorse messe in campo.
Ma ormai era tardi, l’elettorato aveva perso la pazienza e del Pd non si fidava più. Per affrontare il problema degli immigrati, a molti è sembrato più credibile Salvini, per affrontare quello della povertà a molti è sembrato più affidabile Luigi Di Maio.
Non pare che, in vista delle Europee, qualcosa di sostanziale stia cambiando.
La rinuncia di Minniti alla corsa per la segreteria del Pd ha tolto al maggiore partito della sinistra ogni residua possibilità di recuperare fiducia sul versante della sicurezza e del controllo dell’immigrazione.
Quanto alla lotta alla povertà, è curioso che il Pd non si renda conto che la filosofia del reddito di cittadinanza, così aspramente criticata, è assai simile a quella del Rei e delle politiche attive del lavoro, propugnate per tanti anni dalla sinistra riformista ma mai messe veramente in atto, come testimonia lo stato penoso dei centri per l’impiego.
Ma non dobbiamo stupirci troppo.
Il Dna del Pd è cambiato, e non da ieri.
E dalle mutazioni non si torna indietro facilmente,
in biologia come in politica.”