di Giuseppe Pignatone per La Stampa, 04-11-19
Nei giorni scorsi ha avuto ampia eco la decisione della Corte di Cassazione che, in riforma della sentenza della Corte di Appello di Roma sul processo «Mondo di Mezzo», ha escluso che le condotte degli imputati integrassero il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.
Nell’attesa delle motivazioni, dalle quali soltanto potremo comprendere le ragioni della decisione, mi sembra utile puntualizzare alcuni aspetti forse trascurati nel dibattito, dai toni a volte esasperati, seguito alla sentenza.
«Roma non è una città mafiosa, ma è una città in cui operano più associazioni mafiose».
Lo abbiamo detto in ogni occasione nei sette anni in cui sono stato il titolare della Procura. Roma non è una città mafiosa perché, a differenza di Palermo, Reggio Calabria e, in modo diverso, di Napoli, non vede la presenza egemone di una delle mafie tradizionali ma vi sono – come affermano le sentenze di numerosi giudici e della stessa Cassazione – diverse associazioni per delinquere di tipo mafioso e numerosi gruppi di soggetti che operano con metodo mafioso.
Alcuni di questi sodalizi criminali sono formati da siciliani, calabresi, campani. Altri, invece, da romani, da soggetti provenienti da altre regioni o da stranieri, ma non sono, nei loro ambiti, meno temibili di quelli «tradizionali». Basta chiedere agli abitanti di Ostia o delle altre zone della Capitale o del Lazio che ne subiscono la forza intimidatrice. Naturalmente è necessario intendersi sul significato della parola «mafia».
Per l’immaginario collettivo, la mafia è quella tradizionale: camorra, ‘ndrangheta e soprattutto la Cosa nostra siciliana del maxiprocesso e delle stragi, del controllo pressoché militare del territorio e dell’uso costante e manifesto della violenza. Del tutto legittimamente, poi, scienziati sociali, criminologi e storici attribuiscono al termine «mafia» significati diversi, anche tra loro contrastanti, in relazione ai parametri propri delle rispettive discipline e alle loro personali ricostruzioni.
Omertà e violenza Secondo il codice penale, invece, per integrare un’associazione mafiosa bastano tre persone e l’uso del metodo mafioso, cioè la disponibilità della violenza e la capacità di usarla, così da determinare assoggettamento e omertà per il raggiungimento dei fini indicati dalla legge, che possono essere anche di per sé leciti, ma che diventano illeciti se perseguiti con la forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo.
Non sono invece necessari il controllo del territorio né il ricorso continuo a forme eclatanti di violenza. Per il diritto penale, quindi, non ha senso affermare – come è stato invece fatto in questi anni per criticare il nostro operato – che non c’è mafia se non ci sono omicidi, attentati, uso di bombe e raffiche di kalashnikov.
A prescindere dal fatto che anche le mafie storiche hanno ormai ridotto al minimo il ricorso alla violenza, per il diritto penale si devono qualificare come mafiose, se hanno le caratteristiche indicate, anche associazioni per delinquere diverse da quelle tradizionali, con pochi affiliati e che operano su un territorio limitato. Sono quelle che la Cassazione, in numerose sentenze, ha definito «piccole mafie».
Tra queste non rientra, secondo la sentenza del 22 ottobre, l’associazione capeggiata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Rimane, invece, definitivamente accertato che quell’associazione criminale ha pesantemente inquinato e condizionato l’attività del Comune di Roma e delle sue partecipate e che la sua pericolosità è cessata solo con gli arresti scaturiti dall’attività di indagine dei carabinieri del Ros e della Procura di Roma.
Misure cautelari, è bene ricordarlo, disposte dal Gip, confermate dal tribunale del Riesame e poi dalla stessa Cassazione, tanto che mi chiedo: che cosa avremmo dovuto fare a quel punto, forse chiedere l’archiviazione? Sarebbe stata una richiesta assurda in presenza di quelle decisioni, peraltro fondate su elementi di prova poi ritenuti dalla Corte di Appello sufficienti per la condanna degli imputati a pesanti pene detentive, richieste con piena convinzione dai magistrati della Procura e della Procura Generale.
Quindi, altro che «azzardo» o «scommessa perduta» dalla Procura, come pure ha detto qualcuno, fingendo di dimenticare che nel nostro sistema giudiziario il Pubblico ministero ha il dovere di indagare, ma poi può solo formulare richieste da sottoporre ai giudici. Ed è offensivo anche solo ipotizzare che qualcuno voglia giocare con le sorti processuali e la libertà personale dei cittadini.
Il traffico di droga Non condivido poi – anzi nemmeno comprendo – l’esultanza di alcuni commentatori, anche autorevoli, per il fatto che, stando alla pronuncia della Cassazione, nelle condotte di Carminati, Buzzi e coimputati ci sarebbe «solo corruzione» e che a Roma «la corruzione c’è sempre stata», mentre evidentemente, secondo costoro, la presenza nella Capitale delle altre associazioni mafiose non ne infanga l’onore e quasi non costituisce un problema.
Un modo di ragionare che evidenzia, io credo, una sottovalutazione della complessiva realtà romana, caratterizzata dalla presenza di criminalità organizzata, anche mafiosa, e da elevatissimi livelli di corruzione e criminalità economica.
Così si spiega, per esempio, la gravità del fenomeno della diffusione degli stupefacenti, che a sua volta determina quei crimini violenti e quasi inspiegabili che tanto allarmano l’opinione pubblica, come gli omicidi di Desirée Mariottini, del carabiniere Mario Cerciello Rega o l’assassinio ancora più recente del giovane Luca Sacchi.
Delitti di cui peraltro sono stati identificati e tratti in arresto, in tempi brevissimi, i soggetti ritenuti responsabili. Le stesse caratteristiche della realtà criminale romana spiegano poi le preoccupanti dimensioni del riciclaggio e del reinvestimento di capitali illeciti.
Fenomeno anch’esso collegato a criminalità organizzata e corruzione, ma che viene accettato, sulla base del devastante principio che «pecunia non olet», a ogni livello delle dinamiche economiche e da esponenti di tutte le categorie sociali, specie le più elevate. Io continuo invece a credere che corruzione e criminalità organizzata – specie, ma non solo, quella mafiosa – rappresentino un pericolo gravissimo per la nostra vita civile, la nostra economia e per le sorti stesse della democrazia, dato che arrivano a condizionare la libera attività della classe dirigente e, prima ancora, la sua stessa selezione.
Resto altresì convinto che il contrasto a questi fenomeni non possa essere affidato soltanto al giudice penale, la cui azione sarà sempre insufficiente se non si mobilitano anche altri ambiti, con il coinvolgimento di ogni livello sociale e di tutti i cittadini.
Le parole del cardinale Nel 1992, il cardinale Martini fotografava lucidamente, in un’intervista, la necessità di una presa di coscienza collettiva, senza la quale non bastano inchieste, retate e processi: «La mafia – disse l’allora arcivescovo di Milano – non è solo al Sud.
Un costume in qualche modo “mafioso” si è diffuso in altre zone d’Italia, soprattutto nelle grandi città anche nei rapporti diretti: ogni volta che i diritti diventano favori, laddove non contano più i meriti ma le “amicizie” e le appartenenze, quando il ricatto più o meno è di casa o l’omertà si diffonde.
E c’è ancora di più: la mafia, per sua logica interna, va a braccetto con la corruzione . Affari, illegalità, droga sono oggi tra gli elementi portanti di quel “circolo vizioso” in cui la mafia cresce e che la mafia alimenta».
Un’analisi precisa, lucida, confermata dal fatto che già in quegli anni, in Lombardia e in Piemonte venivano arrestate e condannate per reati di mafia centinaia di persone, in gran parte, ma non solo, di origine calabrese.
Parole pronunciate oltre un quarto di secolo fa non da un “addetto ai lavori”, che si possa magari qualificare “un po’ esaltato”, ma da un attento osservatore della realtà italiana.
Parole che è utile ricordare ancora oggi nel frastuono organizzato da pezzi di società che non vogliono che le cose cambino, per non dover cambiare essi stessi.