di Daniela Ranieri per Il FQ, 03-01-20
“Io non vorrei mai appartenere a un club che conta se tra i suoi membri uno come me”.
Gli iscritti al M5S di prima e seconda ora e di prima e seconda fila dovrebbero portare stampigliata questa frase di Groucho Marx cara a Woody Allen sulla maglietta della salute, se non proprio tatuarsela sul petto.
Da anni ormai l’Italia politica è occupata dalle crisi di coscienza di un esercito di fuoriusciti o fuoriuscenti dal MoVimento; MoVimento in cui sono entusiasticamente entrati accettandone le regole e da cui fuoriescono per l’improvvisa scoperta di regole, o per una versione da saga fantasy del riflusso scismatico espresso dalla formula “io sono rimasto fedele al movimento delle origini, sono loro che sono cambiati”.
Nell’ormai famoso passaggio da spina nel fianco a partito di potere seppure sui generis, il M5S è cambiato molto, o per opportunismo (come quando ha votato contro l’autorizzazione a procedere nel caso Diciotti), o per non cambiare; ma in questo caso,si parva lic et , è come se periodicamente un fedele si sentisse autorizzato ad aprire uno scisma nella Chiesa cattolica perché i preti si rifiutano di dire che il pipistrello è un uccello, come è scritto nella Bibbia.
L’ULTIMO fuoriuscente clamoroso (in senso etimologico) è Gianluigi Paragone, un giornalista eletto senatore nel proporzionale (fu battuto dal leghista Candiani a ll ’uninominale nella sua Varese) nel 2018, quando s’è accorto che “non potevo sempre rifugiarmi dietro il paravento dell’essere giornalista”, il che implica viceversa che il giornalista che non si candida a niente si rifugia dietro il paravento dell’essere sé stesso, oppure che uno dei due non è un giornalista.
Direttore della Padania nel 2005, quindi vicedirettore di Libero, poi, nel 2009, “cooptato in Rai su indicazione della Lega” (ipse dixit), conduttore populista e vicedirettore di Rai 1 e Rai2, infine nel 2013 domatore a La7 di ospiti tenuti in piedi in una specie di gabbia da circo a urlare davanti a un microfono enorme (metonimia della voce del popolo) la cosa più caciarona e provocatoria possibile, se si voleva essere invitati di nuovo.
ORA PARAGONE, che già aveva minacciato di dimettersi in caso di accordo col Pd e si astenne dal voto di fiducia al Conte 2, spiega ai grillini com’erano i grillini delle origini, quando lui era della o per la Lega.
Un indizio che forse applica il principio di Groucho Marx è il fatto che non si sia ribellato alle perdite di innocenza e alle compravendite dell’anima, tra le quali bisognerebbe mettere pure l’aver imbarcato gente della Lega e di averci fatto un governo, ma alle scelte più consone e naturali per il M5S, con la rilevante eccezione del voto contro il Tav, “un’opera antimoderna ordinata dal sistema”, voluta dalla Lega in quanto “partito di sistema”.
Una vita contro il potere, e lo dice un ex vicedirettore di Rai 1 e Rai2. Sicché fatalmente “il caso Paragone” è un caso M5S, dato che chi fosse Paragone si poteva apprendere consultando la sua opera omnia: L’invasione.
Come gli stranieri ci stanno conquistando e noi ci arrendiamo (con Francesco Borgonovo, Aliberti, 2009); GangBank. Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita ( Piemme, 2017); Noi no! Viaggio nell’Italia ribelle (Piemme, 2018); La vita a rate. Il grande inganno della modernità: soldi in prestito in cambio dei diritti (Piemme, 2019).
LA DOMANDA è perché Paragone non se n’è andato al momento dell’accordo col Pd, sebbene avesse minacciato di farlo per tornare a fare il giornalista, pardon: a rifugiarsi dietro il paravento dell’esserlo.
La crisi di coscienza scoppia ora, quando il M5S gli chiede di votare la fiducia su una Legge di Bilancio non abbastanza leghista, cioè una legge che Salvini si è guardato bene dal fare, inventandosi la crisi etilica del Papeete, e per votare la quale era comunque meglio stare nella Lega, contro l’Europa “cattiva, ingiusta, generatrice di conflitti sociali” (una cosa che non dice manco più Salvini, che vuole Mario Draghi al Quirinale).
SIAMO ANDATI a controllare: il Codice etico prevede all’art. 3 l’obbligo di “votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle”, a proposito di fedeltà ai princìpi.
Il problema non è tanto che il M5S non è rimasto fedele a sé stesso, visto che tutte le infedeltà a sé stesso sono state commesse prima di oggi e soprattutto che la Legge di Bilancio bisognava pur farla, e farla col Pd, non con lo spettro nostalgico di Borghi e Salvini; bizzarro è che l’agnizione di essere sovranisti e anti-Ue avvenga ora, con altri tre senatori della Repubblica – tali Urraro, Grassi e Lucidi – che prendono cappello lamentando “la totale mancanza di democrazia” dentro il M5S, infatti vanno nella Lega dove comanda solo Salvini insieme ai suoi bestiofori, o bestiogeni, insomma i gestori della Bestia.
Una transumanza che ha costretto Gian Marco Centinaio, ex ministro leghista, a una scrematura: “Abbiamo detto dei no? Certo, non prendiamo tutti. Alcuni non rientravano nei nostri standard”, che è tutto dire.
Altri dieci “grillini fedeli alle origini” sarebbero pronti a seguire Paragone per fare un gruppo-canaglia di sostegno e pressione psicologica al governo, tipo Italia Viva, al che si aprirebbe l’aporia di qualcuno che spiega ai Cinquestelle cosa sono i Cinquestelle diventando come Renzi.