Dico la verità: dopo otto anni passati a raccontar i migranti, a camminare insieme, a spartir tutto con il primo di loro che piangesse lacrime nel deserto o tra le onde del mare, non provo simpatia per Carola, capitano della Sea Watch.
Non credo ci sia grandezza, neppure tragica, nell’ errore.
C’è solo l’ errore e il danno per la causa per cui ci si batte.
Non voglio indignarmi, accusare: la Buona Causa resta quella e non la rinnego, gli xenofobi, sabbia arida, alghe putride, non mi avranno. Ma non mi schiero con la giovane attivista tedesca, il suo sbandierato umanesimo a tempo pieno, il narcisismo fanatico della sua misericordia.
Non salgo sulla sua nave.
Attenta, vorrei avvertirla, stai redigendo, con il micidiale fanatismo delle buone intenzioni, il manifesto propagandistico perfetto per i razzisti. Alla fine, temo, i quaranta sventurati passeggeri, che ancora una volta non contano, vedranno crescere il loro affanno di tagliati fuori.
E questa sarà l’ ennesima sconfitta.Le instillo un dubbio: oggi esser virtuosamente sovversivi non è violare la Legge ma obbligare chi è al potere a rispettarla.
Si invoca, a sproposito anche per lei, Antigone e la sua disobbedienza morale: dimenticando che, poi, alla fine del dramma, Creonte, il tiranno, resta al potere.
Dopo otto anni, scudisciati da delusioni e amarezze, è giunto il momento di riconoscere che il peccato originale è stato credere che si potesse vincere la battaglia sulla Migrazione utilizzando l’ arma della pietà, della empatia verso chi soffre.
E’ stato anche il mio errore. La compassione non dimostra nulla. Non porta a nulla. Non credo più all’ efficacia di queste reazioni di natura animale. La compassione, anche se grande, come avviene nel buon medico, deve passare oltre la piaga che si vuole sanare.
Palpare e non ascoltare i gemiti. Suturare. Comporre. Guarire. Questo conta. Il capitano della Sea Watch è solo l’ ultimo di una schiera di persone di buona volontà ma cieche che ha consegnato i migranti a Salvini, legati mani e piedi con i lacci della loro pietà. Perché anche loro cercavano nel migrante il tornaconto, l’ esito, il successo.
Per otto anni si è chiacchierato, soddisfatti samaritani, in una (mediocre) rive gauche progressista, ripetendo fino allo sfinimento quanto erano giuste profonde belle le nostre ragioni di fronte al cupo e sgangherato barrire dei ciurmadori e degli ignoranti.
Occorreva invece domandarsi (dovrebbe farlo anche Carola): è questa pietà, che porta sempre dentro un quoziente di disprezzo altezzoso, che cercano gli uomini e le donne che sopravvivono al mare?
O sono invece naufraghi fuggiti dal vasto mondo dove vige il non diritto che cercano disperatamente di entrare nel mondo del diritto? Dove l’ arresto deve essere legale, la tortura è punita, il potere controllato, la corruzione reato, il muoversi scelta libera.
Un sistema, quello, che arrota, decapita, uccide. Questo invece dovevamo garantir loro: il diritto.
La battaglia con gli altri, i negatori e gli egoisti dei diritti, non si combatteva sull’ esser più buoni.
Ma con una azione maieutica, pedagogica, paziente, nel denunciare e esigere la correzione delle violazioni che loro commettono:
i decreti sicurezza che colano macroscopiche deviazioni illiberali e incostituzionali, redatti da frettolosi azzeccagarbugli sovranisti;
lo scandalo, giuridico, di appalti repressivi affidati a Stati in mano a bande criminali come la Libia;
le violazione fragranti del diritto internazionale commesse nel riconsegnare i rimpatriati a Stati canaglia;
i fraudolenti ritocchi di un mostruoso diritto etnico che vale solo per gli italiani.
Ci volevano giuristi attenti e implacabili, non pasionarie e commozioni, che sono fuoco fatuo, sdegno o fiaba.
Era quella la strada, procedere secondo la applicazione della Legge più alta, che è diritto positivo non fatua retorica: tutti gli uomini hanno diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.
Conosciamo l’ album della nostra Storia: è un codice di leggi, sfogliamolo.
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