di Luca De Carolis & Paola Zanca per Il FQ, 22-11-19
È stato Davide Casaleggio, che con la politica ha poca dimestichezza, a insistere perché fosse il blog a decidere sulle Regionali. Luigi Di Maio ne avrebbe volentieri fatto a meno.
Lo aveva scritto, del resto: tutti quelli che “da sempre portano sulle spalle il peso del Movimento” sono d’accordo con me. E ancora ieri sera, dopo la batosta che gli iscritti gli hanno riservato bocciando con il 70 per cento dei voti la sua linea, continua a ripetere che Beppe Grillo è dalla sua parte.
Anche per il fondatore, si fa scudo Di Maio, serviva lo “stand by”, la “riflessione”, la “pausa elettorale”.
“Ma decidiamo insieme”, aveva chiosato annunciando il voto, più rassegnato che convinto, affidandosi alla rodata tecnica di confondere gli attivisti chiedendo di votare “sì”se non volevano presentarsi e di cliccare il “no” se invece preferivano dire di sì.
E il blog ha deciso: il 26 gennaio sulle schede elettorali di Emilia Romagna e Calabria il simbolo M5S ci sarà.
Un risultato quasi scontato, visto che ancora prima che finisse lo spoglio era esplosa la protesta degli esponenti M5S di Calabria ed Emilia Romagna: avvelenati perché Di Maio aveva promesso che si sarebbero rivisti, che avrebbe comunicato per primi a loro ogni decisione e invece ha “scaricato la responsabilità” sugli iscritti, senza nemmeno avvertirli.
Ma a protestare erano stati anche alcuni volti noti del Movimento, come Roberta Lombardi.
E pure fedelissimi di Di Maio come la vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni, emiliano-romagnola, convinta – scrive in una chat – che sia “politicamente uno sbaglio, perché la gente non prenderà questa ‘pausa’ per un momento di riorganizzazione, ma per una deposizione delle armi a favore di un governo vacillante”.
COSÌ, IL VOTO sulle Regionali rischia di diventare la slavina che si porta giù una leadership già assai precaria.
Quella del giovane di Pomigliano che ha portato i Cinque Stelle al 33 per cento, su cui un tempo nessuno osava fiatare (in pubblico) e che adesso viene palesemente criticato perfino da quelli che erano i suoi più fidati consiglieri. “Sicuramente il Movimento è in un momento difficoltà e lo ammetto prima di tutto io”, ha detto ieri, ancora prima di sapere della sconfitta. Perché oggi come oggi al Movimento mancano “obiettivi, organizzazione, identità”.
Che è un po’ co me confessare che quella che porta in mano è una scatola vuota. Poi, come nel suo stile, ha affrontato la débâcle davanti alle telecamere, provando a trasformarla nell’ennesima “prova di democrazia”.
Nessun accenno alle conseguenze, pesanti, che potrà avere sulla tenuta dell’es ecutivo giallorosa.
Piuttosto una minaccia: “Andremo da soli”.
E adesso che si fa? I ragionamenti sulla fine dell’era Di Maio sono ormai arrivati ai tavoli più importanti, hanno fatto capolino perfino nelle riunioni ristrette dei big, sono oggetto delle telefonate tra Beppe Grillo e i maggiorenti del partito.
Un “congelamento” è la via più indolore che al momento sembra farsi strada.
E se, da regolamento, al posto di Di Maio dovrebbe andare il presidente del collegio di garanzia, che in questo caso è il senatore Vito Crimi, la logica vuole che il posto da reggente – se davvero Di Maio non riuscisse a reggere l’onda d’urto – vada a un leader forte, riconosciuto dalla base, come Paola Taverna o Alessandro Di Battista, che però è pronto a ripartire per l’Iran.
IL 15 DICEMBRE, tra tre settimane, si insedia “il team del futuro”, ovvero la squadra di referenti tematici con cui Di Maio ha tentato di arginare le richieste di collegialità dei grillini che contano, ancora convinti che sia necessaria una vera e propria segreteria politica.
Ieri, dopo la botta di Rousseau, anche chi crede che Di Maio sia tuttora l’unico capo possibile, commentava la sconfitta con amaro sarcasmo: “Una più o una meno, per Luigi cosa volete che cambi?”.
Tradotto: un’era è finita, con lui o senza di lui.