Destinazione Montecalvo di Caterina Abbate
Vivevamo in un piccolo scalo ferroviario sulla linea Benevento-Foggia; mio padre era il titolare della stazione di Montecalvo-Buonalbergo-Casalbore, che si trovava a valle dei tre lontani e antichi paesi, tra le province di Avellino e Benevento, lungo il fiume Miscano.
La stazione, nonostante l’isolata collocazione, sfavorevole anche dal punto di vista climatico, godeva di un certo rilievo per traffico di viaggiatori e merci, in quanto serviva un vasto territorio.
C’era anche un deposito per i locomotori aggiuntivi che venivano posti in coda ai convogli più lunghi in direzione di Foggia, per ricevere la spinta necessaria alla lunga salita di Pianerottolo d’Ariano.
Siamo stati a Montecalvo per sette lunghi anni, in esilio, come pensava mia madre, che spesso scappava da Montecalvo per rifugiarsi dai nonni a Benevento.
Ed il rientro era sempre più amaro.
Mio padre non si esprimeva, si impegnava nel suo lavoro con la serietà di sempre e si limitava a presentare ogni anno l’ennesima domanda di trasferimento.
Certo per lui, che era stato capostazione a Napoli Smistamento, non doveva essere gratificante lavorare in quella stazioncina, anche se ne era il titolare. Gli mancava il chiasso, la vivacità, il clima, la lingua di Napoli, il mare, mentre doveva quasi vegetare in mezzo al nulla della valle del Miscano.
Ricordo l’altura incombente di Montecalvo sulla nostra casa, mentre i boschi creavano dal basso un sipario verde, celando alla vista il paese arroccato sulla cima del monte, calvo, senza vegetazione.
Dalla finestra della mia camera vedevo in lontananza la valle del Miscano aprirsi verso Buonalbergo, più basso rispetto a Casalbore, un grumo di case aggrappate al castello.
Non ho mai saputo a quale comune appartenesse esattamente la piccola frazione nella quale abitavamo, suppongo a Montecalvo, perché era il centro abitato più vicino.
Il fabbricato del deposito dei locomotori era imponente, due binari partivano dalla stazione per scomparire nella sua cavità, la bocca di un mostro: sul lato sinistro la linea ferrata, al piano terra il dormitorio dei macchinisti (mille volte destati dai nostri giochi, si affacciavano alla finestra che dava sul nostro giardino, emettevano dei cupi brontolii e tornavano a dormire), il nostro appartamento al piano superiore.
Due ampi vani al piano terra, sulla destra, avevano l’accesso esterno, dalla strada sterrata; erano adibiti a scuola e, per così dire, a centro sociale. Le palazzine dei ferrovieri si trovavano in parte di fronte alla stazione, in parte su una stradina laterale della statale, dopo il passaggio a livello posto alle spalle del nostro giardino.
Il passaggio a livello era spesso chiuso, perché allora i treni erano frequenti, e si creavano lunghe file delle pur rare automobili: mammà, così la chiamavamo in un napoletano, che evocava assonanze francesi, temeva il passaggio a livello, non per i treni (eravamo avvezzi al traffico ferroviario), ma alle possibili insidie di pedofili in agguato nelle automobili ferme.
“Non uscite dal giardino e non accettate caramelle dagli sconosciuti!”, era il suo ordine perentorio, puntualmente disatteso per le scorribande nel deposito o nei campi vicini. Masserie sparse punteggiavano la campagna coltivata a vite.
La vigna più grande era di un nostro compare (i miei genitori ne avevano cresimato il figlio); quando l’uva era matura, io raccoglievo i grappoli più grandi, ne gustavo i chicchi dolci, tra le viti e l’aria che sapeva di stalla.
Il compare aveva una grande masseria: vi si giungeva al termine di un sentiero nella vigna, in una salita erta e faticosa, da cui si poteva ammirare il Miscano attraversato dal ponte ferroviario in ferro.
Nell’aia c’erano tanti animali, cani alla catena, galline che scorrazzavano in giro, i maialini rosei dal grugno umido e grufolanti, le mucche nella stalla con le mammelle gonfie di latte, che il compare ci offriva in bottiglie forse lavate in tempi lontani e che mammà accettava per farci consumare il latte previa lunga bollitura.
Io me ne stavo attaccata a mia madre, perché tutti quegli animali mi spaventavano, da quando avevo visto abbattere un cane rabbioso; un’altra volta, appoggiandomi ad un muro, fui invasa dalle formiche, ne fui liberata, dopo essermi quasi strappati di dosso i vestiti, mediante un rapido bagno provvidenziale.
Da allora imbattermi in una sola, piccola e denutrita formichina di città, ben diversa dai neri formiconi che mi assalirono a Montecalvo, mi scatena un prurito nervoso e devo subito provvedere all’eliminazione dell’insetto, alla ricerca della tana, per chiudere tutti gli accessi.
Quando al Liceo, in seguito, sentii parlare per la prima volta, della poesia idillica, dell’Arcadia, pensai che quei poeti forse non fossero mai stati in campagna o ci prendessero in giro.
Per diversi anni, dopo che avevamo ormai lasciato Montecalvo, il compare e il compariello (i nomi son volati via nel passato) si presentarono in casa nostra a Natale, carichi di rustiche delizie: un pesante paniello (una forma di pane rotonda di grano scuro), uova, frutta, una gallina ed un magnifico capocollo.
Mi è rimasta nel cuore Giuditta, la padrona di un fondo prospiciente la stazione, in una casa bassa, bianca, ombreggiata da un albero di fico da cui lei raccoglieva per me frutti dolcissimi.
Giuditta vestiva abitualmente da pacchiana, con un fazzoletto legato sulla nuca, un gonnellone dai colori vivaci e un corpetto nero su una lunga camicia bianca: mi piaceva tanto quel costume che per il Carnevale volli indossarne uno; ero affiancata da mio fratello in veste di cacciatore o di cow-boy in calzoni corti, un accompagnatore non proprio adatto ad una pacchianella.
Caterina Abbate
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