di Luca De Carolis per Il FQ, 23-8-19
Ora Luigi Di Maio prova a inseguire quello in cui non ha mai creduto, un accordo con il Pd.
Ma la via d’uscita che pochi ma influenti big vogliono tenere aperta, un ritorno con la Lega magari dopo un’abiura di Matteo Salvini, resta sullo sfondo. Con il capo che non asseconda ma non condanna, aspetta.
Nonostante il no di gran parte del gruppo parlamentare, urlato dritto ieri in assemblea, e il divieto di doppio forno calato dal Quirinale, che ieri stava per punire per indisciplina il vicepremier, reo di non aver detto quella parola, Partito democratico, dai microfoni del Colle.
POI IN SERATA è arrivato il cerotto, cioè il mandato dell’assemblea del M5S ai capigruppo per trattare con i vertici parlamentari del Pd. E alle otto della sera Sergio Mattarella ha concesso tempo per provare a costruire un governo. Ma i sospetti rimangono lì, come le rogne.
E il primo ostacolo a un patto con i dem è il bisogno di Maio di una bandiera da sventolare, e per questo pretende subito il taglio dei parlamentari. “Se non ci garantiscono il taglio di 345 eletti il tavolo neanche lo apriamo” giurano dal Movimento. E dietro c’è anche, anzi soprattutto una ragione tattica: se si votasse in via definitiva il provvedimento alla Camera, tra tempi per l’attesa dell’eventuale referendum, revisione dei collegi e una nuova legge elettorale la legislatura si prolungherebbe per inerzia. “Così potremmo avere la garanzia che il governo durerà” è il calcolo.
Ma il rosario dei nodi è lungo.
E il principale rimane il nome per Palazzo Chigi.
Perché la grandissima parte del Movimento invoca Giuseppe Conte, ma Di Maio si sta già rassegnando al veto del Pd, cioè a far cadere il nome del premier uscente, di cui soffre popolarità e stile, e con il quale la distanza è da settimane profonda.
Soprattutto, Di Maio sa che i dem non potrebbero accettare sia lui che Conte in uno stesso esecutivo.
E non ha voglia di fare un passo indietro: anche se alcuni big in queste ore glielo hanno chiesto, proprio per arrivare a un Conte2.
“Se ti chiami fuori dal governo toglierai forza al veto del Pd su Giuseppe e darai un grande segnale ai gruppi parlamentari e alla base”è il ragionamento fatto al capo.
Ma Di Maio, capo già molto indebolito, non ha voglia di sacrificarsi. Rimanere fuori dal prossimo esecutivo gli farebbe perdere visibilità e altra quota nel Movimento, dove Beppe Grillo è tornato centrale. Però non potrebbe fare muro a un altro nome in costante ascesa per Palazzo Chigi, quello di Roberto Fico.
Il presidente della Camera, il grillino con il cuore rosso antico, l’opposto del vicepremier: che lo soffre, come avrebbe sofferto Conte. Ma Fico a molti del Pd andrebbe benissimo, e dire di no sarebbe complicato.
Nell’attesa, Di Maio cerca una terza scelta. Ma al momento non ha una vera carta. Così deve giocare di tattica, non chiudere a Conte, e fingere di non notare maggiorenti come Stefano Buffagni e Gianluigi Paragone che parlano con il Carroccio.
Anche Paola Taverna è più che scettica sul Pd.
E ieri sera circolavano voci su un sms di Davide Casaleggio a favore di un nuovo patto con la Lega. Di certo in assemblea il capo ha lasciato parlare per primo di tavoli e punti programmatici il capogruppo in Senato Stefano Patuanelli, per far capire che l’avvio della trattativa, “sui temi”, dovranno darlo i vertici in Parlamento.
Solo poi, teoricamente, dovrebbero sedersi al tavolo anche Di Maio e Zingaretti, per parlare del nome per la presidenza del Consiglio.
DI CERTO grandissima parte del M5S vuole Conte e solo lui, e ieri in assemblea lo ha ribadito.
Tanti hanno anche chiesto di tagliare ufficialmente ogni ponte con la Lega. Perché temono la ricaduta.
Non a caso, un veterano come Nicola Morra ha dettato paletti: “Al tavolo col Pd non dovrà esserci chi era a quello col Carroccio. E niente comunicazione presente durante le contrattazioni politiche”.
Una contromossa, nel gioco dei sospetti.