di Paola Zanca per Il FQ, 28-01-20
Non era quello di ieri, il Consiglio dei ministri giusto per valutare lo stato dei rapporti tra i giallorosa dopo la vittoria del Pd in Emilia-Romagna. Rapido e burocratico: la questione più politica che si è trovato ad affrontare, per dire, è stata la data del referendum confermativo per il taglio dei parlamentari.
Si voterà il 29 marzo, una delle prime date disponibili, proprio per evitare la retorica di chi avrebbe potuto accusarli di allungare i tempi per ragioni elettorali. Così, sono stati i gesti fuori dal palazzo a segnare i confini del nuovo assetto post-emiliano.
Nuovo assetto che non avrà a che fare con i posti: nessuno ha intenzione di mettere mano alla composizione di governo. Non solo perché i numeri in Parlamento restano nettamente a favore del Movimento, nonostante domenica non si sia nemmeno avvicinato a percentuali a due cifre. Ma anche perchè sono tutti consapevoli che qualunque posto venisse toccato, il rischio smottamenti crescerebbe di livello.
L’UNICA CASELLA destinata a cambiare è quella di capo delegazione, ovvero il rappresentante del Movimento all’interno dell’esecutivo: non più il dimissionario Luigi Di Maio, ma probabilmente il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, tornato in linea con l’ex capo politico dopo alcune frizioni del passato e soprattutto meno esposto dell’altro favorito, quello Stefano Patuanelli che ha di fatto aperto il congresso M5S chiedendone la collocazione definitiva nell’area del centrosinistra.
Per la verità, vista l’aria che tira, il candidato perfetto sarebbe lui. Perché se c’è una cosa che l’Emilia ha portato a Roma è il vento “innovatore”, per dirla con il premier Conte, che chiede di far nascere una nuova area “alternativa alle destre”.
Lo dice chiaro il presidente del Consiglio: “Se dovessi scegliere io – ha spiegato ieri a Otto e Mezzo, mi piacerebbe molto un’area innovatrice per lo sviluppo sostenibile, aperta e inclusiva dove possa trovare spazio anche il M5S”. Un’area che “non ha nulla a che vedere con queste destre” che vanno “in giro a citofonare” e che gli ricordano “pratiche oscurantiste del passato”.
SA, CONTE, che non è quello su cui riflettono i Cinque Stelle. Vito Crimi, reggente del Movimento dopo le dimissioni di Di Maio, lo ha appena detto in conferenza stampa: “Al cittadino non frega niente se fai il fronte contro la destra ma se aumenti il lavoro e riduci le tasse. Allora sì che va bene”.
Non proprio la stessa lunghezza d’onda su cui viaggia l’altra metà dei giallorosa, ovvero il Pd. Che a festeggiamenti ancora in corso, manda segnali ai colleghi di maggioranza. Il primo, niente “smargiassate”.
Zingaretti non vuole affondare il coltello nella piaga della débâcle del Movimento e, al contrario, spera passi il messaggio che “uniti si torna contendibili” per cui bisogna “governare da alleati e non da avversari”e avviare “progetti comuni” anche nelle Regioni (ce ne sono altre sei che vanno al voto in primavera).
Il piano è provarci a partire dal cosiddetto “crono programma” con cui Conte vuole scandire la “fase due” del governo. I dem, nel conclave vicino Rieti, hanno buttato giù la loro lista di priorità; i Cinque Stelle hanno raccolto gli spunti dei parlamentari ma ancora devono metterli a sistema (oggi Crimi incontrerà la squadra di ministri e sottosegretari M5S). Oggi in Parlamento ci saranno le prime due prove per la maggioranza.
Il voto sulla proposta di legge del forzista Enrico Costa – che vuole abolire lo stop alla prescrizione e che piace ai renziani – e l’inizio dell’esame degli emendamenti al Milleproroghe tra cui ci sono anche le misure propedeutiche alla revoca delle concessioni autostradali, dossier che ha diviso Pd e 5 Stelle.
“Ora che ci siamo lasciati questo voto alle spalle – ha detto ieri Conte – confido di chiuderlo presto”.