di Franco Romano per Il FQ, 15-3-19
“Spero che Zingaretti dia ascolto a Cacciari.
Il neo segretario Pd ha condensato in due parole la sua bussola: unità e cambiamento. Unità è proposito scontato per chi assume la guida di un partito.
Cambiamento è impegno che esige di essere più precisamente declinato. E che può entrare in tensione con la cura per l’unità.
Merita perciò fissare il senso di tale discontinuità.
Può aiutarci l’ultimo libro di Renzi, che rivendica con orgoglio la sua azione alla guida del partito e del governo.
1. Il Pd, nella scorsa legislatura, è stato o ha trasmesso l’immagine di “partito dell’establishment”.
Il che ha contribuito a disegnare la propria geografia elettorale dentro il perimetro della ZTL, cioè dei ceti urbani abbienti e istruiti.
Un problema per un partito con radici a sinistra. A conferma, due elementi connessi:
a) una legge elettorale (il Rosatellum) concepita in vista di una maggioranza Pd-FI;
b) la campagna per il “voto utile” a battere i “barbari” essenzialmente intesi come i 5 stelle, scelti da Renzi come l’avversario principale e sistemico, con un effetto boomerang.
Concorrendo cioè ad accreditarli come il partito anti-establishment quando il vento spirava vigorosamente in tale direzione.
2. A correggere quell’autorappresentazione del Pd non hanno giovato le rapsodiche concessioni di Renzi a un’antipolitica light: le polemiche con la Ue, i tecnici, i burocrati, i professori, Bankitalia;
la campagna referendaria costituzionale fondata sul discredito verso i politici. Affonda lì la rottura tra Renzi e Gentiloni che, nel libro La sfida impolitica, critica l’errore inseguire goffamente umori che avrebbero premiato più plausibilmente gli avversari.
3. La differenza già messa a verbale da Zingaretti è quella della politica delle alleanze, larghe, plurali, inclusive, civiche e politiche.
L’opposto della presuntuosa autosufficienza inaugurata da Veltroni ed esasperata da Renzi. Una cultura della coalizione che si costruisce nel tempo, non si improvvisa in campagna elettorale. Zingaretti parla di empatia.
L’opposto dell’antipatia sulla quale già ammoniva il Pd renziano un simpatizzante come Farinetti.
4. Tra i mantra di Renzi, la tesi della guerra degli oppositori interni al “Matteo sbagliato”.
Curiosa autocritica, come di chi fa il mea culpa battendo il petto degli altri. In realtà, pochi hanno potuto godere di un potere tanto grande. Partito personale, Direzione ridotta a teatro di un rito di mera ratifica delle decisioni del capo.
Non si ha memoria di una sola volta in cui la Direzione si sia chiusa con una decisione diversa da quella con cui si era aperta.
Chi ha esordito col gioco duro della rottamazione (forse necessaria) non poteva attendersi una dialettica da “mammolette”.
5. La tesi secondo cui oggi dovremmo rimpiangere la bocciatura della riforma costituzionale è singolare. Essa conferiva straordinari poteri alla maggioranza contingente, mettendo nella sue mani gli stessi organi terzi di garanzia.
Come si può protestare oggi (con ragione) contro una maggioranza non immune da pulsioni illiberali e rimpiangere una riforma che le avrebbe assegnato un potere esorbitante?
6. Continuo a pensare che fu un errore negarsi al dialogo con i 5Stelle quando Mattarella ne fornì al Pd l’opportunità.
Oggi è tutto più difficile. Ma non convince Renzi quando rivendica il merito di “avere distrutto” i 5Stelle.
Intanto sarei più prudente. Ma soprattutto:
a) è un gran merito avere concorso a raddoppiare il consenso a Salvini? Forse sì, se il non detto è che Salvini sia più potabile;
b) proprio la Lega dimostra come muovendo dal 17% (il Pd ebbe un punto in più!) si possono invertire i rapporti di forza.
Naturalmente se si fa politica, non ci si rifugia sull’Aventino e non si tiene in ostaggio il partito per un anno.
Ecco un piccolo promemoria per declinare la discontinuità e per porre le basi di un nuovo corso, che deve discostarsi esattamente dal corso renziano.”