Cinema & Teatro, Luciano Odorisio

Branca Branca Branca, Leon Leon Leon, Fiiiiii BUM!

«Lo so, lei vuole che le racconti degli aneddoti. Voi giornalisti volete sempre gli aneddoti. Ma io non li so. Mi dimentico tutto e non li so».

Mario Monicelli non rinuncia mai alla sua ironia da toscano di mare.

L’armata Brancaleone, uscito nel 1966, raccontava dello scalcinato e sbruffone cavalier Brancaleone e della sua armata improbabile composta da cinque disperati in cerca di onore e in viaggio verso il feudo di Aurocastro.

Monicelli, come mai nel 1966 ha fatto un film così particolare, tanto moderno che sembra quasi uscito dalle mani di Quentin Tarantino?

«Casomai è Tarantino che assomiglia al cinema italiano. Noi abbiamo cominciato a fare questo tipo di storie un po’ folli, particolari, piene di fantasia, già con Totò».

Sì, ma l’Armata è completamente fuori dalle regole…

«È figlio di quel cinema italiano inventato da Roberto Rossellini che ha travolto il mondo».

Dopo un anno sarebbe scoppiato il ’68. Questo film può essere considerato una metafora di un’epoca caotica, trasgressiva ma anche generosa?

«Non lo so. La verità è che gli autori, gli artisti, hanno antenne che li fanno percepire cose di cui non sono nemmeno consapevoli. Intuiscono i cambiamenti in anticipo. Tanto è vero che “armata Brancaleone” è diventato un modo di dire per definire dei raggruppamenti politici di cialtroni».

E adesso ne vede molte di “armate”? 

«Moltissime».

Lei scrisse la sceneggiatura insieme ad Age e Scarpelli. Molte discussioni?

«Macché, ci divertimmo moltissimo. Come sempre. Ci vedevamo tutte le mattine verso le dieci e per tre, quattro ore si parlava di tutto: politica, pettegolezzi, polemiche, dell’ultimo film visto. E fra una chiacchiera e l’altra si scriveva. Noi avevamo in mente di raccontare l’Italia dell’anno Mille, selvaggia, brutale, ignorante, insensata, incolta. Però avventurosa, varia e generosa. Quell’Italia che poi andava a fare le crociate nel Medioriente dove c’era la vera cultura. Con questa idea un po’ garibaldina, un po’ balorda, ci siamo divertiti a leggere testi, a rubacchiare a destra e a sinistra».

Rubacchiare da chi?

«Da personaggi come il Morgante e il Margutte dell’Orlando furioso o dai testi di Jacopone da Todi».

Ma chi si è inventato quella specie di dialetto aulico incomprensibile?

«Sa che non lo so? Non so da dove è venuto fuori. Abbiamo incominciato a creare questa strana lingua inventando parole medievali, ma anche prendendole dai vari dialetti. Una lingua che ha fatto dire al produttore, Mario Cecchi Gori, quando gli abbiamo portato la sceneggiatura, che lui questo film non lo voleva più fare».

E come lo avete convinto?

«Combattendo. Io ho rinunciato al mio compenso e sono entrato in compartecipazione. E lui, un po’ costretto dal fatto che aveva preso l’impegno, da me che ci credevo così tanto da rinunciare ai soldi, da Age e Scarpelli che minacciavano di trovare un altro produttore, ha ceduto».

E fu un successo.

«Trionfale. Quel linguaggio folle è piaciuto moltissimo ai ragazzini che hanno cominciato a parlare così».

Così, però, lei ci ha guadagnato molto di più.

«Moltissimo. Tanto è vero che cinque anni dopo, quando Cecchi Gori mi ha proposto il seguito (Brancaleone alle Crociate), io gli ho chiesto di fare lo stesso tipo di contratto. E lui ha rifiutato. Non era stupido».

Questo film ha un cast di attori di grandissima personalità: Vittorio Gassman, Gian Maria Volonté, Enrico Maria Salerno, Catherine Spaak. È stato difficile guidarli?

«Ma che dice… Non è stato mai difficile per me lavorare con gli attori. Si sono affidati a me, senza invenzioni o capricci. Tutti eccetto Salerno. Il personaggio straordinario del monaco Zenone, che gridava come un matto con voce in falsetto e si scagliava su Brancaleone baciandolo in bocca, lo ha inventato lui».

In che senso “inventato”?

«Stavo a casa a rileggere la sceneggiatura. Suona il campanello apro ed è lui, Salerno. Che si precipita dentro e dice: “Ho letto la sceneggiatura, quel monaco devo farlo io”. E comincia a gridare come un pazzo recitando con quella voce “bianca” frasi deliranti. Urlava così tanto che la gente si affacciò alle finestre. Io non ci avevo proprio pensato a farlo così il monaco».

Gassman si trovò bene in quel ruolo?

«Certo. Lo avevamo costruito proprio su di lui. Vittorio si divertiva perché Brancaleone gli somigliava molto: sbruffone, gigione, spavaldo. In fondo con quel personaggio prendeva in giro se stesso».

Non ci fu proprio nessuno scontro sul set fra tutte queste primedonne?

«Ricordo solo un certo amichevole e canzonatorio sfottimento fra Gassman e Volonté. Si provocavano su chi era più forte dell’altro. Così si sono sfidati in combattimento».

Sul set?

«No, eravamo in un ristorante. Vicino al castello di Aurocastro, che era in un paesino nel profondo della Calabria, un posto dimenticato da Dio e dagli uomini, dove non si sapeva dove dormire, dove mangiare. E c’era un ristorantello dove eravamo gli unici clienti. Lì Volonté e Gassman si sono sfidati e hanno fatto a lotta, con noi che li incitavamo».

E chi ha vinto?

«Gassman. Era forte sa».

E oltre ai combattimenti sono nate storie d’amore?

«Catherine Spaak ne ebbe una. Ma non le dico con chi. Così le rimane la curiosità».

Cattivissimo.

«E no, queste cose non mi riguardano. Comunque le storie d’amore sono nate soprattutto sul set di Brancaleone alle Crociate. Siamo andati a girare nel deserto del Sahara in Algeria. Eravamo in un’oasi molto romantica, costretti a vivere e a dormire tutti insieme per un mese e mezzo».

Quindi il luogo si prestava.

«Esatto. E lì è nato anche l’amore fra Gassman e Diletta D’Andrea, che poi si sposarono».

Lo farebbe un terzo Brancaleone?

«Mai. Già non volevo fare Brancaleone alle Crociate».

Perché?

«I secondi, anche se vengono bene, non sono mai come i primi. Solo due volte mi sono piegato a fare i sequel: con Brancaleone e con Amici miei».

Però a lei piace fare film sui gruppi: di crociati, di amici, di parenti…

«Mi diverto quando in un film ci sono tanti attori con caratteri diversi come I soliti ignotiI compagniAmici mieiSperiamo che sia femmina. Più casino c’è, più mi diverto».

di Federica Lamberti Zanardi

(20 gennaio 2006)

E chi vuole può rivederlo, eccolo:

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